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Perchè il giudice Gratteri sa "bucare lo schermo"

Klaus Davi

Ovunque si presenti miete successi: che si tratti di interviste in programmi come “Piazzapulita” di La7 o “Quante Storie” di Rai 3, che parli del suo libro, della criminalità, di politica o di Sud, Nicola Gratteri colleziona applausi dalle platee televisive. Un consenso da fare invidia ai leader politici, plasmato dal gradimento del pubblico a casa e da curve di ascolti in salita. In un momento di corruzione dilagante e di offensiva dei clan anche nel Nord Italia, nonché di arretramento dell’economia, la figura del pm – che il popolo chiama comunemente “giudice”, ravvisando in questo sostantivo un ruolo quasi rassicurante – dispensa la dimensione plastica (e catodica) della lotta tra Stato e anti-Stato. Una lotta a cui uno spicchio consistente della popolazione, nonostante tutto, crede. Ma il prezzo per chi ci mette la faccia è molto alto.

Trent’anni di vita sotto scorta sono di fatto una non-vita. Le cose più semplici diventano impossibili: andare al mare, condividere una pizza con gli amici, appassionarsi ad un film al cinema o fare una banale passeggiata. Bene o male si è monitorati anche nei momenti più intimi e soprattutto non esistono più quelle piccole libertà che danno senso alla vita. Per non parlare poi dei rischi che i magistrati anti-mafia corrono.

Sembra facile, ma inanellare una serie molto lunga di arresti di super boss, ordinare confische di beni e convincere i pentiti ad abbandonare i clan non è che ti renda simpatico alla ’ndrangheta (anche se poi, paradossalmente, tutti i picciotti affermano nei vari processi di «stimare il dottor Gratteri»). Insomma, se non è una vita d’inferno poco ci manca. Questo il pubblico a casa lo percepisce e, come spesso di fronte a tutti i fenomeni corposamente “veri”, reagisce. E allora arriva il responso dell’Auditel: Gratteri alza mediamente di un punto la media di ascolto ovunque si presenti.

E poi libri venduti a valanga (l’ultimo testo dal titolo “Storia segreta della ’ndrangheta”, edito da Mondadori, è stato in classifica per ben 15 settimane), fiction e produzioni internazionali interessate al giudice calabrese, come ai tempi degli straordinari Falcone e Borsellino. Successi che ingenerano però anche invidie e alimentano gossip. Ad esempio, la leggenda su una sua prossima discesa in politica. Remota sul piano dei fatti ma comprensibile sul piano del dibattito politico, visto che ormai il magistrato di Gerace usa un linguaggio sempre meno giudiziario e sempre più improntato all’analisi della società, criminale e non, supplendo alle carenze della discussione politica.

Un classico molto efficace di Gratteri sono le critiche al solipsismo tecnologico dei ragazzini. Il Procuratore di Catanzaro dà una mano corposa a chiunque si occupi di mafie e di ‘ndrangheta con i suoi continui interventi e smentisce la diceria secondo cui il tema “non tira”. Un luogo comune ignorante, con cui spesso ci si autoassolve giustificando la propria incapacità di narrazione di un fenomeno.

Leggendo i suoi libri e ascoltando i suoi discorsi in tv non commette mai l’errore di ridurre il tema delle mafie a un fenomeno poliziesco. La penetrazione sociale e culturale del malaffare è continuamente esemplificata. Insomma, fa quello che purtroppo lo Stato non è sempre in grado di fare, ovvero focalizzare la perversione delle mafie e sviscerarne il consenso social–politico. Un successo che gli procura invidie soprattutto fra i colleghi.

Ma nel mondo massmediatico, se non ci fosse Gratteri, si parlerebbe ancora meno delle mafie e della loro penetrazione. Oltretutto i libri di Gratteri – scritti in coppia con la firma autorevole di Antonio Nicaso – hanno poco a che vedere con il giornalismo giudiziario ma molto con l’analisi antropologica. Leggendoli, si capisce che affrontare la ’ndrangheta solo come mero fenomeno militare è riduttivo, data la capacità camaleontica della “Piovra”.

Certo è comodo, si circoscrive il fenomeno rassicurando la politica. Ma non se ne spiegano le ragioni.

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