Un libro di sentimenti e d'immaginazione, ma anche di travagli, di sofferenze, di sogni, di ricordi, di curiosità e di aneddoti. Un romanzo, “Anita” (Bompiani), con il quale Alain Elkann, scrittore, giornalista, cittadino del mondo, percorre le latitudini dell'anima e racconta con levità la bellezza della vita, l'amore, la natura, la musica, la poesia, l'arte, le esperienze, gli incontri, le persone, parlando anche di morte. E che si sofferma quasi ossessivamente su uno degli argomenti ancora tabù della nostra esperienza di umani, la grande paura non tanto della morte, ma di cosa sarà dopo la morte. Allora, cosa fare di quel corpo che una volta spento, non pensa, non agisce, non vive più? Cremarlo, come ritiene sia giusto Anita, nella sua idea che nello scegliere di diventare cenere ci sia un guizzo di libertà? O lasciare che venga seppellito, che la carne compia il suo destino, perché è orribile che in pochi secondi diventi cenere, come pensa Misha? Misha, o Milan, la voce narrante, e Anita, la donna conosciuta in età matura, si sono innamorati; ma innamorarsi è anima o corpo? E morire è anima o corpo? E così, è proprio a partire dalla consapevolezza che nulla può arrestare l'assedio della morte, a cominciare dalla riflessione su quel corpo che ciascuno di noi è, dalla presa di coscienza che esso è l' «oggetto che noi siamo», nelle sue necessità, nelle sue contraddizioni e nella sua bellezza, che si dipana un romanzo breve, leggero, affilato, che guarda all'essenzialità della prosa di Carver. Ne abbiamo parlato con l'autore. Una riflessione lieve sull'amore, sulla vita e sulla morte. Questo Suo libro, dottor Elkann, è anch'esso un “diario verosimile”? «Sì, può darsi. In realtà, è una storia d'amore, e l'amore interferisce divenendo una sorta di metafora della vita. La fine di un amore può essere assimilata alla morte e la fragilità dei sentimenti fa pensare alla precarietà della vita. Misha e Anita hanno due visioni del mondo diverse; lei crede nella reincarnazione ma è sicura che sceglierà di essere cremata dopo la morte. Lui non crede nell'anima ma rifiuta la cremazione e pensa che bisogna lasciare al corpo la dignità di disfarsi naturalmente. Riflessioni che s'intrecciano nella quotidianità ad esperienze di vita intensa, che tuttavia mettono alla prova i sentimenti. Il mio è un libro di sentimenti e d'immaginazione». Sentimenti che dalla famiglia si muovono verso gli amici e verso la donna amata. Ma si tratta di un amore maturo. «Sì, l'amore maturo è uno dei punti centrali del racconto. Un amore vissuto a sessant'anni non è lo stesso di quello vissuto da giovani. E infatti, dopo il primo capitolo in cui la storia dell'incontro con Anita viene riscritta e inserita nella dimensione del “come sarebbe stato se…?”, il racconto prende il via da questo rapporto maturo e un po' malinconico che poi diventa una storia d'amore durante la quale le morti di amici e parenti inducono all'ossessione sulla sorte da assegnare al proprio corpo: ceneri o sepoltura?». Un pensiero dominante questo, tuttavia trattato con leggerezza e fluidità, a tratti con ironia. «Questo è un libro misto, con riflessioni ora tristi ora comiche. Anche su quel che poteva essere e non è stato. Ma non è un libro triste né drammatico. Del resto, come trattare motivi così fondamentali come l'amore, la vita, la morte, se non con leggerezza e ironia? La leggerezza è l'unico modo di raccontare i casi della vita. Così, il tema della morte, antichissimo anche dal punto di vista letterario, oltre che proprio delle più antiche civiltà, può diventare aneddoto, o assumere risvolti comici, come quando Misha scopre di aver dormito per un po' di tempo con le ceneri della congiunta di Anita in camera da letto, o apprendere che quella tomba di famiglia al cimitero di Montparnasse a Parigi, dove è sicuro di approdare, potrebbe essergli preclusa». Nel Suo libro c'è spazio per tanti luoghi, dall'America all'Europa a Gerusalemme; e per tanti amici. Tra gli altri, c'è un ricordo molto bello di Alberto Moravia. «Moravia, un amico che è stato uno dei miei maestri. Mi ha insegnato che la cosa più difficile è spiegare in modo semplice le cose complicate. Proprio come quelle del mio libro. Perciò ho voluto regalare al libro un episodio molto importante che mi lega ulteriormente a lui. Racconto che nel giorno in cui Alberto è partito per sempre indossava una camicia a righe bianche e rosse e una cravatta di maglia di seta rosa, due indumenti che gli avevo regalato io e che gli impiegati delle pompe funebri avevano scelto casualmente. Ecco, il fatto che Alberto sia andato via con i miei vestiti mi sembra una cosa straordinaria, poetica. Un destino». Dottor Elkann, chi è Milan/Msha? «Milan o Misha sono io, ma io sono anche Anita, e sono tutti i personaggi che abitano il libro. Sono il maschile e sono anche il femminile. Lo scrittore deve essere tutti i personaggi, deve essere lui stesso personaggio di fiction e personaggio reale. Non sono tuttavia Alberto Moravia che ho raccontato nell'episodio citato prima. Anche i luoghi sono quelli attraversati nei viaggi, ma sono pure quelli dell'anima, come l'isola greca dominata da un imponente monastero, un luogo di incantevole bellezza, un approdo cui tornare, un luogo della vita». Se nell'incipit del Suo libro c'è il racconto del «come sarebbe stato se quell'amore fosse stato vissuto da giovani…», nella conclusione c'è invece un ritorno a Gerusalemme. Il confronto con le radici ebraiche e con lo sradicamento dell'ebraismo è anch'esso un tema centrale dei Suoi libri... «Una necessità, un bisogno recarmi al Muro del Pianto, attraversare il quartiere arabo, il quartiere dove c'è il Santo Sepolcro e il quartiere armeno. Una città dove ascoltare il silenzio, un luogo da cui cominciare a raccontare».