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Magris e il disincanto che protegge l'incanto

Vito Teti e Claudio Magris davanti alla statua di Ucciali

La necessaria, sofferta domanda «Che ci faccio qui», che dà anche il titolo a questa piccola rubrica, ci rinvia al sentimento dell'esilio e della lontananza. Fin da giovane, nei miei studi sulla Calabria, ero colpito dalla sua rappresentazione come terra remota, terra della lontananza assoluta.

Ma cosa significa essere lontano? Lontano da cosa, o «lontano da dove», come si chiede il titolo di un prezioso saggio di Claudio Magris del 1971, che coglie nell'«esilio» la fondamentale metafora di una condizione storica ed esistenziale che esclude l'individuo dalla pienezza e dalla totalità della vita.

Nell'insieme della sua opera Claudio Magris si è interrogato sulla crisi della ragione e della civiltà europea senza mai abbandonarsi allo smarrimento. Vargas Llosa lo ha definito uno dei più grandi scrittori dei nostri tempi e George Steiner ha scritto che le sue opere e la sua presenza sono indispensabili in quest'epoca barbarica della storia. Anche per me, Claudio Magris resta indispensabile. Nel fargli gli auguri per il suo ottantesimo anno, sento di dichiarargli la mia gratitudine di studioso e amico. Leggendo le sue pagine - in un momento in cui cominciavo a declinare nelle mie ricerche parole come esilio, erranza, emigrazione, fuga, nostalgia, melanconia - , la fine dell'Impero austroungarico e della comunità ebreo-orientale analizzate sul filo delle opere di Joseph Roth mi aiutava a leggere, pur nelle loro diversità, la fine della civiltà contadina e il mio stesso senso di «incolmabile alterità». Con perfetta laicità, l'autore vi utilizzava categorie non prive di connotazioni religiose come pietas, epifania e umiltà.

Naturale è l'osservazione dei riferimenti di Corrado Alvaro, che conosceva Roth, oltre che al meridionalismo e alla cultura classica e nazionale, anche a una cultura europea e mitteleuropea. Il titolo di “Fuga senza fine” di Roth riemerge in quello d'un suo testo teatrale inedito. Le opere dei due scrittori sono popolate da erranti, inquiete figure in fuga da se stesse, che coltivano la nostalgia del mondo dei padri senza possibilità di tornare al mondo perduto. Il rimpianto di un universo precipitato nel disordine della modernità diventa un punto di riferimento ideale.

Le riflessioni di Magris orientavano il dibattito in una direzione di possibile uscita dall'impasse in cui si dibatteva la cultura marxista e progressista. Nella vita culturale italiana, la sua voce è sempre quella di un testimone e di un pensatore straordinario. I suoi commenti, in un'Europa che cerca di trovare se stessa, costituiscono un riferimento morale di cui abbiamo un estremo bisogno.

Il viaggio è metafora della vita, un cammino che non ammette ritorno, perché il ritorno è ossessione, miraggio a cui ci si afferra per non avvertire il vuoto. Ulisse che torna a Itaca non è colui che ne è partito. Magris ci dice che solamente abbandonando a casa i nostri pregiudizi, fonte di rabbia e di frustrazione, possiamo realmente entrare a far parte del mondo. Solamente «mescolandoci» potremo ritrovare la «benevolenza» per noi stessi e «il piacere del mondo». Viaggiando, cadono spesso certezze e aspettative, mentre altri valori e sentimenti si trovano per via.

La casa natale, la patria (la Heimat di Bloch), che con nostalgia crediamo di vedere nell'infanzia, si trova alla fine del viaggio. L'intellettuale triestino ci parla di una frontiera che, più che rinchiudere un'effettiva “identità”, è un'idea preconcetta, una delimitazione mentale: non barriera invalicabile, ma ostacolo da superare. Interfaccia osmotica, attraverso cui è possibile passare, per entrare in contatto con ciò che si trova dall'altra parte, acquisendo una nuova coscienza di sé.

Una sera di tanti anni fa a Le Castella, davanti a una statua di Uccialì (di cui entrambi ci eravamo occupati), lo scrittore mi apparve identico all'uomo, il grande narratore all'affabulatore. Il disincanto di Magris non cede al senso di catastrofe imminente, ma ci invita a un viaggio attraverso la disillusione per salvare l'unico incanto autentico, quella valenza di senso umana, fantastica, etica, politica che nasce anche nell'esperienza quotidiana, nell'amore e nell'amicizia. Utopia e disincanto, in realtà, possono rafforzarsi a vicenda, conferendo alla speranza la forza agguerrita che può nascere dalla malinconia.

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