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"Quel muro che cominciò a cadere prima", Berlino nei ricordi di un ricercatore

Era la prima volta che passavo il Muro. Una specie di totem, anzi di tabù, quasi parafrasando la psicanalisi di Freud. Eppure ne avevo viste di cotte e di crude nel mio piccolo grande viaggio nella macchina del tempo, che mi aveva portato a girovagare in tutta l'Europa dell'Est. Io, solitario ricercatore occidentale nella Polonia di Jaruzelski, mi ero abituato a vedere il “giocattolo” dall'interno. Mi ritenevo uno scafato e collaudato conoscitore del “comunismo reale”. Avevo zucchero e farina con la tessera, a Varsavia, e pure mezzo chilo di burro al mese. La fotografia di un sistema economico e produttivo da manicomio, nel quale la Polonia, che aveva una delle prime produzioni pro capite di latte in Europa, era costretta a distribuire i prodotti caseari con la tessera. Come in tempo di guerra. Ma eravamo in guerra.

Con lo stato d'assedio proclamato dal generale che indossava eternamente gli occhiali neri. I polacchi ci scherzavano sopra. Amaramente. Dicevano che gli servivano a “saldare” la Polonia con la Russia. E quando lui, che aveva cercato di evitare l'invasione sovietica, annunciava «una luce in fondo al tunnel», gli abitanti di Varsavia rispondevano che forse si trattava di un treno corazzato russo. Beh, il clima era questo. Tanti sogni, un desiderio incredibile di libertà e negozi desolatamente vuoti. Ma l'atmosfera era quella di una nazione che stava per fare una svolta epocale.

Tutto ciò nel mio primo viaggio a Berlino Est non l'avevo trovato. A saltare improvvisamente sul treno erano stati i cani lupo, seguiti dai “vopos”, le guardie di confine che non sorridevano mai e avevano il grilletto facile. Appena il treno che veniva dalla Polonia era arrivato nella stazione di Berlino Est, mi era sembrato di entrare nel set di un film spionistico in bianco e nero. I “vopos” svitarono le plafoniere delle lampadine, demolirono lo scompartimento e mi guardarono persino dentro il necessaire per la barba, spremendo anche il tubetto del dentifricio. Altre guardie correvano con dei carrelli muniti di specchi per controllare il treno da sotto. Il passaporto se lo rigirarono mezz'ora per le mani e me lo restituirono, anzi me lo tirarono in faccia, sudaticcio, con un sorriso beffardo. Certo, laggiù la qualità della vita era nettamente superiore a quella della Polonia e anche a quella della Cecoslovacchia, nazioni dove i russi erano particolarmente odiati. Così come in Ungheria, che nel 1956 aveva tentato un esperimento economico diverso da quello sovietico. I concittadini di Breznev, insomma, erano visti come fumo agli occhi. Anche i membri del Partito comunista locale, che pure dalla falce e martello traevano un tenore di vita superiore a quello dei loro compatrioti, dietro le quinte dicevano peste e corna e sparavano a zero contro i russi.

Il clima era questo in Germania Est, dove la metà dei cittadini era spiata e l'altra metà era composta da spioni. Il premio? Posizioni di alto livello nella burocrazia comunista o nelle aziende di Stato, che consentivano, come avrebbe scritto Carducci, di «tirare quattro paghe per il lesso». Salari speciali, ma anche negozi speciali. Dove potevi trovare beni, diciamo, “di lusso”, che il resto dei tedeschi si procurava solo al mercato nero. E poi c'era l'eterna questione dei passaporti. Di andare all'estero non se ne parlava. Ci fosse stata questa possibilità, la Germania Est si sarebbe svuotata in due giorni. Andava all'estero solo chi era “fidato”, chi pagava (salato) e chi lasciava in garanzia… i parenti. Partire e non tornare significava mettere a rischio tutta la settima generazione.

Ma la riflessione che volevo fare tende a mettere in chiaro una cosa: la caduta del Muro di Berlino è cominciata prima ancora che lo costruissero, all'inizio degli anni 60. Sembra un paradosso, ma è una sacrosanta verità. Nei calcinacci di quei mattoni demoliti a mani nude nel 1989 c'è sangue, tanto sangue. Quello versato, a partire dalla morte di Stalin, a Berlino, nell'Ungheria di Imre Nagy, nella Cecoslovacchia di Dubcek e Ota Sik e nella Polonia di Gierek, Walesa e Jaruzelski.

Passeggiando per lo Stary Rynek di Cracovia, Ania era stata profetica, me lo aveva anticipato almeno otto anni prima. Lo ricordo come fosse ora: davanti alla statua di Mickiewicz, sotto le guglie della Mariacka, mi aveva detto che la storia a volte è beffarda. «I tedeschi ci hanno tolto la libertà nel 1939. Il patto tra Hitler e Stalin ha consentito lo scoppio della seconda guerra mondiale. La Polonia se la sono spartita per la quarta volta. E nel dopoguerra l'Unione Sovietica si è preso il resto. Il paradosso è che ora sarà la Polonia a restituire la libertà a tutta l'Europa Orientale, Germania Est in testa, vedrai».

Quando ho parlato con Lech Walesa ho capito. «Noi non vogliamo cambiare solo la Polonia - mi disse - . Sarebbe impossibile. Vogliamo costruire una rivoluzione che liberi tutta l'Europa Orientale dal giogo sovietico. Vogliamo cambiare un modello economico istituzionale con il quale non abbiamo nulla da condividere». E ci sono riusciti. Grazie anche all'Uomo della Provvidenza, venuto da Wadowice. La prima botta al Muro di Berlino, con la sua mazza da carpentiere, l'ha data Karol Wojtyla. Non è stato solo il Padre della patria polacco, ma si è battuto per scardinare tutta la cortina di ferro.

Nel mio secondo viaggio a Berlino si avvertiva già palesemente il cambio dei tempi. La Germania Est non era più quella che era stata, ma non era ancora nemmeno quella che avrebbe dovuto essere. In mezzo al guado della Sprea, sembrava di vivere il clima dell'8 settembre del '43 in Italia. Quando, caduto il fascismo, il re e il governo se la diedero a gambe lasciando i fantaccini senza un ordine e tutto il resto del Paese allo sbando, nelle mani dei nazisti assetati di vendetta. Certo, a Berlino Est nel 1989 non era la stessa cosa, ma poco ci mancava.

Il Paese più “duro e puro” del blocco orientale si era liquefatto in un paio di settimane. Era scritto. Quel modello economico da manicomio, studiato da Trotzki e da Lenin, rivisto da Stalin e poi cancellato e riproposto, a ogni crisi ciclica, non poteva reggere. Quando uno dei consiglieri più ascoltati di Gorbaciov, Oleg Bogomolov, a Salisburgo, ai seminari dell'Università di Harvard sulla perestrojka, disse che il sistema poteva essere riformato, qualcuno si alzò a contestarlo. E mostrandogli un bicchiere di cristallo gli chiese di dargli una nuova forma. Se avesse avuto abbastanza forza per provarci il risultato finale sarebbe stato quello di romperlo. E così fu. Il modello sovietico era talmente fradicio da poter essere soltanto scaraventano nella spazzatura. In un colpo solo i russi pagarono la prepotenza di non avere permesso la nascita di un comunismo dal volto umano, da Berlino Est a Budapest, da Praga fino a Varsavia.

Tornai a Berlino a cose fatte. Quando il Muro era già stato demolito da un pezzo. Me ne stavo da solo, a rimuginare questi pensieri, vicino ai ruderi che avevano fatto la storia, con tutti i loro martiri grandi e piccoli. Davanti mi scorrevano, come in un album fotografico, i volti degli uomini forti fella Germania Est. Ulbricht, Honecker e i potenti direttori della Stasi. La polizia segreta di Stato che ti costringeva ad aprire i rubinetti dell'acqua o a tirare lo sciacquone del water, a casa tua, per parlare senza essere intercettato. Chi ha fatto queste esperienze è rimasto segnato a vita. Passeggiai, come in un sogno, per le strade dell'ex Berlino Est, in quella che era stata la capitale del “Grande fratello”. Stentavo a credere. Ma ciò che aveva previsto Ania si era verificato, come in una terribile profezia biblica. C'era qualcosa di grande, di forte, di sovrumano in quello che era successo. Qualcosa che sembrava andare oltre le stesse leggi della storia.

Attraversai il viale che dall'altro lato dell'ex Muro proseguiva come Unter den Linden. La strada sotto i tigli. E raccolsi, quasi meccanicamente, una foglia. Mi ricordai che Ania aveva fatto la stessa cosa a Krakowskie Przedmieśe, a Varsavia. Davanti alla chiesa della Santa Croce, dove è conservato il cuore di Chopin e dove batte ancora il cuore di tutta la Polonia. Ania mi aveva pregato di non affidare la foglia al vento, chiedendomi di conservarla. Ingenuo simbolo di libertà. Non ho più rivisto Ania. Ma la foglia è sempre là, custodita come una reliquia, in un libro. E non potrà mai più essere intaccata dalla polvere del tempo, perché i sentimenti, come le lacrime e i sorrisi, non invecchiano mai. Ecco, il mio Muro di Berlino è questo: non è solo storia. È anche poesia.

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