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Canti, suoni e flash mob: “Abbracciamoci” ciascuno dal suo balcone

Elena Venuti

L'Italia in cattività s'inventa mille cose, per sentirsi viva. L'Italia delle separazioni - un giorno qualcuno scriverà il romanzo del metro di distanza, delle famiglie divise, degli affetti lontani, delle traiettorie interrotte, del mondo globale diventato mondo parziale, ritirato, singolare - fa la cosa che le viene meglio da secoli, per resistere: crea cose, aggira gli ostacoli. E tutto finisce in Rete, che mai come adesso sta onorando il nome che porta: è l'unico luogo dove possiamo starci vicini a milioni, e lo stiamo facendo (tra l'altro, nel “dopo”, nessuno potrà fare obiezioni a rendere il digitale - quello che ora sta salvando i lavori di tanti e la socialità di tutti - uno dei primi punti di qualsiasi agenda politica).

Oltre a quelli che in Rete fanno lezioni, esami, incontri di lavoro e persino pagine di giornale, ci sono centinaia di gruppi di autoaiuto: ci si industria a distrarsi, occuparsi, impiegare competenze e talenti. Paragonato al silenzio delle strade, il brusio della Rete ripopola il mondo svuotato. Ma non basta. E così, ieri pomeriggio alle 18 - obbedendo una mobilitazione ovviamente nata in Rete - si è cantato e suonato un po' ovunque, in modo professionale o improvvisato (chi vi scrive ha intonato una versione appassionata di “Viva l'Italia” di Francesco De Gregori davanti al panorama imperturbabile e magnifico dello Stretto: «L'Italia con gli occhi asciutti nella notte triste, viva l'Italia, l'Italia che resiste»).

Canzoni pop o l'inno di Mameli, arie d'opera o canzoni partigiane, la “Bella ciao” appena riscoperta nelle piazze (e che dolore, quella militanza “fisica” appena ritrovata e già interrotta e abbandonata...). Interi quartieri coinvolti, a distanza di sicurezza sui balconi, o singoli cantori coraggiosi.

Ma già prima dell'appello per il flashmob musicale giravano in rete alcuni video bellissimi, pure se rudimentali, che davano conto di cose accadute in questi primi giorni di segregazione collettiva, di questo stranissimo starsi vicini (di casa) senza incontrarsi.

Il primo video, dal titolo “Musica, amicizia e riunioni di condominio ai tempi del coronavirus” (è su YouTube, cercatelo), mostra dirimpettai d'un imprecisato comune campano che, tamburelli alla mano, cantando e battendo da un balcone all'altro, intonano una “Vesuvio” da brivido. Una canzone degli “E Zezi - Gruppo operaio” che parla della vita in un territorio estremo, quello del vulcano (ma non solo), dove «So pizz' 'e case o so pizz' 'e galera / Addò staje chiuse d'a matina a sera / Si' o purgatorio 'e tutt' chesta 'ggente / Ca vive dint' e barrache e vive 'e stient». Chiusi da mattina a sera, proprio come gli italiani del marzo 2020. E sono sempre napoletani quelli di un altro video : in un grande condominio di Portici si affacciano in tanti ai balconi e cantano “Abbracciame” di Andrea Sannino. Quello che non si può fare per legge, quello che è sommamente pericoloso: abbracciarsi. Ma non resta un buon motivo per non dirselo, per non abbracciarsi con la voce e col cuore.

Il terzo video che ci fa ripensare la nostra idea d'Italia viene invece da un luogo molto diverso - a dimostrazione di quante cose identiche ci siano, nelle differenze, a legarci - una stradina di Siena l'antica, nel cuore della contrada dell'Oca, e poi dietro tutte e tutti (bella metafora: le contrade che non fanno che sfidarsi e combattersi, ma sono invece unitissime per e nella città) a intonare il “Canto della Verbena”, inno della città e alla città che resiste, che non muore.

Ne vedremo e sentiremo tanti altri, perché la scoperta incredibile che stiamo facendo, in questi giorni cupi, noi, gli incattiviti che seminavano odio sul web, che passavano tanto tempo a scambiarsi insulti e progettare muri, è quanto siamo soli, senza gli altri; quanto siamo spersi, se ci teniamo lontani; quanto ci manca di noi, se non abbracciamo gli altri.

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