Finirà e quando finirà ci sentiremo, è auspicabile, italiani tutti insieme, come nelle guerre mondiali, quando i nostri i nostri padri, nonni e bisnonni hanno combattuto uniti, sotto la stessa bandiera, per un’unica patria, tutti fratelli, da Nord a Sud. Anche se, poi, finito il periodo consapevole e fecondo del dopoguerra, delle buone intenzioni, delle lacrime da asciugare, delle ferite da rimarginare, abbiamo dimenticato e siamo tornati fratelli coltelli, parenti serpenti, sotto lo stesso cielo azzurro italiano. Ora, che il “coronavirus” è come una terza guerra mondiale, che cambierà l’esistenza, le abitudini, l’ossessione di consumare (senza senso), di vivere anziché esistere di ognuno di noi, riscopriamo che essere uniti è utile; che lottare insieme ci può far vincere, che la ricchezza da sola, e gli egoismi, non basteranno a preservarci dalle pesti inattese e improvvise. Facciamo questo lungo preambolo per introdurre un tema che (dopo) non potrà essere più disatteso: il divario, tra Nord e Sud, e le due Italie.
Ripete spesso Paolo Mieli (come storico) che l’Italia ha un debito storiografico grosso con il Sud; terra, vittima di una storia negata, di una visione razzista, da parte del Nord. L’opinione è facilmente condivisibile. Tuttavia, fino a quando non ci sarà una presa di coscienza collettiva, “istituzionale”, e questi convincimenti vengono espressi e confinati in sedi occasionali, di dibattito culturale o storico, rivelano la debolezza tipica delle chiacchiere da circolo culturale. Sono come il detto, e il non detto; denotano quella “poca fermezza” che veniva rimproverata ad Antonio Gramsci in tema questione meridionale; proprio a lui che resta l’unico studioso che ha spiegato (in un famoso saggio) come chiuderla “La questione meridionale”. La storia d’Italia (malcerta) è come il fenomeno del “non finito” meridionale: case senza intonaco, appartamenti senza finestre, tondini che fuoriescono dal cemento: un fenomeno ampio, particolarmente in Calabria, metafora dell’arretratezza del Mezzogiorno.
Alla storia italiana (non finita) mancano tasselli ed è comprensibile che ci siano storici che – tuttora – con ostinazione, nelle loro ricerche e nelle ricostruzioni su un’epoca confusa spostino le lancette indietro, offrendo “nuove letture” di un tempo storico in cui tutto è accaduto e si è consumato e che adesso riemerge nella sua realtà drammatica. È quel che fa Carmine Pinto, professore di Storia contemporanea all’Università di Salerno, con l’interessante libro La guerra per il Mezzogiorno (editore Laterza) in cui analizza i dieci anni decisivi per le sorti dell’Italia, tra il 1860 e il 1870. Il saggio, molto documentato, ricco di materiali “nuovi”, racchiude dentro la cornice della “guerra per il Mezzogiorno” le vicende complicate e oscure di italiani, borbonici e briganti che determinarono il successo dell’unificazione, ma marcarono il Sud – per sempre – con l’inchiostro indelebile di un’anomalia italiana; di terra, che ebbe partecipazione non riconosciuta e controversa alla nazione risorgimentale. L’interrogativo di fondo – nell’ottimo saggio di Pinto – è se il brigantaggio fu l’eroica resistenza meridionale al colonialismo sabaudo, oppure, diversamente, la sfida allo Stato di bande criminali.
La tradizione storiografica, pur con punti di osservazione che risentono di miti patriottici, nostalgie borboniche e narrazioni malcerte, ha mantenuto (sul brigantaggio) il giudizio di fenomeno eversivo e criminale. Pinto, correggendo questa impostazione di parte, lascia sul campo vincitori e vinti e chiama “guerra della nazione” la guerra al brigantaggio, sostenendo, invece, che fu nient’altro che una storia di italiani contro italiani; una guerra non assimilabile a nessun’altra, ma sempre una guerra con “combattenti” sull’uno e sull’altro fronte: quello piemontese e quello meridionale.
Quel che appare certo è che il “debito”, nei confronti del Sud, rimane non pagato, con tutte le appendici politico-ideologiche che caratterizzano la divisione, che ormai sembra permanente. Sulle ragioni, del divario Nord Sud, soprattutto economico, indaga l’economista Vittorio Daniele, nel saggio Il Paese diviso (editore Rubbettino), un libro che presenta la “divisione” se non come un “unicum” certamente come un caso “speciale”, che ha alimentato l’incessante dibattito (del ritardo meridionale) da ricercare nella storia preunitaria, più specificamente nel lascito sociale e istituzionale di Borboni, Angioini e Normanni: un fardello del passato, insomma. Daniele indaga, con rigore scientifico, sulle vicende che determinarono il divario, e trova il punto “incriminato” nelle vicende storiche, ma ancor più nell’operare di forze di mercato che hanno favorito l’integrazione del Settentrione con le aree industrializzate dell’Europa, lasciando il Mezzogiorno nella sconveniente posizione periferica in cui l’aveva, in precedenza, collocato la storia.
La domanda centrale, nello studio del professore di storia di Politica economica dell’Università Magna Grecia di Catanzaro è: «perché il Sud non si è sviluppato come il Nord?». Fuori dai formalismi accademici Daniele “rilegge” vecchie e nuove pagine della storia italiana: unità, guerre mondiali, fascismo, eredità culturali, antropologia, emigrazione, mafia, violenza, clientelismo, e ultime ma non ultime, le politiche governative. Spuntano, come nelle storie noir che si rispettano, due colpevoli, o due imputati: le politiche e i comportamenti delle classi dirigenti e, in parallelo, l’azione delle forze economiche che hanno portato alla formazione di una geografia economica italiana disuguale.
Nessuno, è la conclusione, merita assoluzioni, ma se le forze economiche agiscono per convenienza, seguendo le regole del mercato, inseguendo il profitto, le classi dirigenti, muovendosi tra pregiudizi, discriminazioni, ipocrisie, sono ancora più ciniche e colpevoli. Discuteremo di tutto ciò, seriamente, dopo? Ce lo auguriamo.
Un altro contributo alla questione delle “questioni meridionali”, viene dallo storico ed economista Sergio Zoppi, studioso autorevole e di lungo corso della materia, che nel saggio Questioni Meridionali (editore il Mulino), racconta la storia (positiva) di un piccolo gruppo di personalità della cultura e dell’impresa napoletana che diede vita a una rivista che mostrò il volto vero del Mezzogiorno (analfabetismo, indigenza, scarso sviluppo, malattie) nel periodo in cui il fascismo controllava l’intera vita nazionale e aveva dichiarato inesistente il dualismo e il divario Nord Sud. “Questioni Meridionali”, spiega Zoppi, è stata una forma di resistenza civile in anni in cui sull’Italia pesavano negativamente la chiusura all’Europa e le angustie di un’autarchia che non era solo economica. Zoppi ha il merito di far riemergere i contenuti di una rivista attorno a cui, con lucidità e senza ipocrisie, un gruppo di personalità ha indicato la strada da percorrere per giungere ad un riscatto civile ed economico del Mezzogiorno. Esperienze, alla luce di quanto sta accadendo, da ripetere.
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