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Catastrofe, ovvero il vuoto che inghiotte

Un uomo solo cammina, si ferma, prega, dice parole solenni e indimenticabili per credenti e per tutti, affida, con un coraggio che fa tremare il corpo e la mente di chi ascolta, il Mondo al Signore, chiama e interroga tutti. C'è qualcosa di drammatico in quelle immagini e in quelle parole che inchiodano muti a una diversa percezione del mondo, dei luoghi, del tempo, di ognuno di noi. «Nessuno si salverà da solo» ed è, forse, questo il primo, imprevedibile, profetico ammonimento rivolto universalmente, «Urbi et Orbi».

Le maestose e superbe colonne, le logge, Piazza San Pietro, che come le opere d'arte si elevano al Cielo (cito Georg Simmel), si presentano quasi come delle rovine dell'oggi e del domani. Il pieno è diventato vuoto. Non c'è stato nessun bombardamento, nessun temuto attacco terroristico, eppure quel vuoto, quella solitudine, l'assenza totale di persone (che anche nelle scene di guerra e di attentati fuggono, sono ferite, angosciate, ma danno segnali di vita) presentificano il rischio di una fine possibile, fanno pensare a una terra, alle città, ai paesi senza più abitanti. Da tempo - da più parti - si invocavano gesti, scelte, parole nuove per rendere abitabile il Mondo, per riabitare i luoghi, e adesso percepiamo che anche i luoghi più famosi, più simbolici, riferimento per milioni di persone come quella piazza vuota e desolata possono morire, scomparire, mentre gli abitanti vivono terrorizzati, fragili, spaventati in attesa del peggio. Nessuno scenografo, e nessun regista, avrebbe potuto costruire un set più adeguato per dare il senso di fine, di apocalisse, di rovine che, in questo caso, non succedono alla fine del mondo, ma la prefigurano e la annunciano come possibile.

Non c'è una parola, un termine, che possa dare l'idea di uno scenario di dolore, di paura e di speranza del tutto imprevedibile, vissuto insieme dal mondo intero, senza distinzioni di nazioni, etnie, religioni, culture. Guerra è il termine che è stato maggiormente adoperato per indicare quanto è accaduto e accade con il Coronavirus. Ma con le guerre, con i bombardamenti, con gli attentati i luoghi non restano mai integri e del tutto vuoti. Altri studiosi hanno parlano, con fondati argomenti, di crollo, calamità, disastro, sospensione. Ma anche queste metafore non restituiscono il senso estremo, il senso di «ultimità» che qualcuno aveva temuto, annunciato, prefigurato, ma nessuno aveva mai vissuto. La verità è che questo evento, inatteso, ma anche annunciato, non somiglia in tutto e per tutto ad altri “eventi” o “fenomeni” che si sono verificati nella storia. Mi viene in mente il termine «catastrofe» (dal latino tardo catastrŏpha, catastrŏphe, greco Καταστροϕή), con cui scrittori antichi indicavano un «rivolgimento», un «rovesciamento», una grave sciagura. Dobbiamo la complessa teoria delle catastrofi al matematico francese René Thom (1923-2002), che partiva dagli studi di Henri Poincaré. Dalla matematica e dalla biologia, il termine «catastrofe» passa in altre discipline e in altri ambiti. Terremoti con effetti disastrosi, maremoti, alluvioni con perdite di vite umane, crolli del mercato, crisi finanziarie e così via sono stati indicati con il termine catastrofe.

Piero Bevilacqua, in una riflessione del 1981 “Catastrofi, continuità, rotture nella storia del Mezzogiorno” (in «Laboratorio Politico») ricordava le innumerevoli «catastrofi» di cui è intessuta la storia del Mezzogiorno. Terremoti, disboscamenti, emigrazione spingevano a scoprire i meccanismi delle trasformazioni sotterranee e non guidate dinnanzi all'impotenza dell'agire politico. La riflessione prende le mosse da Francesco Saverio Nitti, che a inizio Novecento individuava nei terremoti, nella distruzione dei boschi e nell'emigrazione le tre «cause modificatrici» della storia recente della Basilicata e della Calabria.

Nelle mie ricerche e nei miei lavori ho avuto modo di ricordare come, per i contadini e i ceti popolari, il mondo e la vita cambiavano a seconda che venissero considerate «prima» o «dopo» l'emigrazione che, già con la sola partenza di migliaia e migliaia di persone, modificava assetto fondiario, relazioni sociali, ordine familiare, culture, mentalità, forme di autorappresentazione. «Tutto è più libero» o «niente è come prima», «tutto è finito» o «tutto è cambiato», ripetevano, con sentimenti e con valutazioni contrastanti, quelle persone che comunque vivevano, con consapevolezza, dolore, smarrimento, delusione, speranza, la «fine di un mondo», il crepuscolo e l'erosione di una millenaria civiltà contadina, che, nel giro di pochi decenni (unitamente ad altre cause e spinte locali e più generali) avrebbero portato all'abbandono e allo spopolamento di montagne, aree interne, campagne e paesi, a un vuoto che oggi ha assunto dimensioni catastrofiche, e anche a un pieno, a un intasamento delle coste, alla nascita di paesi doppi, in loco o all'estero, e a un mancato legame tra «i non più luoghi» e i «non ancora luoghi». Anche per quanto riguarda la 'ndrangheta, vista come una struttura, un insieme complesso di elementi che si rinviano, un «fatto sociale totale» che tutto contagia e contamina, sono stato portato a suggerire che essa vada considerata come una sorta di «catastrofe» naturale, storica, sociale che ha devastato e devasta la Calabria e i luoghi dove si è ramificata. Insieme alle altre catastrofi, di cui spesso è esito o causa, la 'ndrangheta modifica, in maniera permanente, con scosse incisive e costanti, o con scosse devastanti, la società, la cultura, la mentalità delle popolazioni.

Parlando delle frequenti, continue, ripetute alluvioni, scosse telluriche, Corrado Alvaro ricordava come sulle catastrofi, le ricostruzioni, le incompiute prosperavano i ceti dominanti del Sud. Da allora non c'è stata mai, come insegnano terremoti devastanti degli ultimi anni, calamità come alluvioni e incendi con devastazioni e morti, una politica della messa in sicurezza, della salvaguardia, della cura del paesaggio, dei paesi, degli edifici pubblici, delle scuole.

Non bisogna tacere che, purtroppo, anche con questa immane, inedita, inimmaginabile catastrofe ci saranno ceti e gruppi che trarranno profitto e ceti popolari e marginali che diventeranno sempre più deboli, poveri, bisognosi di cure. La catastrofe rende impossibile, sempre e comunque, il ritorno a un prima. Lo sappiamo dalla nostra esperienza individuale che un incidente, un lutto, una perdita, una devastante delusione, la fine di un amore significano una catastrofe che non rende possibile alcun ritorno al prima, anzi spesso si resta fissati e imprigionati nel prima, senza riuscire a vedere un dopo dentro cui camminare e abitare. Anche quando le persone reagiscono, ricostruiscono, rifondano non tornano al punto di partenza. Anche dinnanzi alle più terribili guerre, alluvioni, stragi, calamità, alle morti per fame e per sete, abbiamo continuato a pensare che si fosse in presenza di eventi che non ci riguardavano, lontani, impossibili. E così l'impensabile e l'inimmaginabile è avvenuto.

Anche il termine catastrofe usato per descrivere la pandemia in corso, se da un lato è utile per capire che la drammaticità della rottura, il rivolgimento epocale renderanno impossibile qualsiasi ritorno al punto di prima - perché nulla potrà essere più come prima (casa, paese, città, spazio, tempo, relazioni, corpo) - d'altra parte sembra riduttivo perché con le catastrofi la vita comunque continuava, nel tempo si stabilivano dei fili che legavano prima e dopo. Mentre adesso nulla, se non un ingenuo ottimismo, sterili dichiarazioni, necessarie, certo, di «tutto cambierà», può assicurarci che l'umanità saprà e potrà, davvero, ripartire in maniera completamente diversa, ribaltare il modello di sviluppo, annullare la devastazione del pianeta, chiudere con la cultura dell'emergenza, ripartire dai beni comuni e dal bene comune, rendersi conto che la sopravvivenza potrebbe significare soltanto una non vita, controllata, gestita, governata da pochi potenti e privilegiati, destinati a dominare quanti comunque si adatteranno a vivere come servi.

Ci vuole un termine nuovo, non basta nemmeno catastrofe, per indicare una pandemia globale, che riguarda tutti, che tutti (anche quelli di cui non abbiamo notizia) patiscono. Il mondo è piccolissimo, quanto la casa in cui abitiamo, è fragile, non ce ne siamo accorti, soltanto comportamenti radicalmente altri potranno farci immaginare un domani. Per questo quelle immagini di un uomo fragile, claudicante come l'intero pianeta, dolente e concentrato come ognuno di noi, col suo sguardo implorante e anche interrogativo (per nulla rassicurante) al Crocefisso in quella piazza che fa pensare a visioni da «il giorno dopo», hanno avuto la capacità (con parole profetiche che invitano, già da oggi, a un ribaltamento e al sovvertimento del mondo di prima) di diventare un simbolo di questo tempo, sospeso, incerto, insicuro, e di questa umanità che, se vuole continuare ad esistere come specie, deve imboccare strade completamente altre, fermarsi, pensare, capire, tornare indietro, accontentarsi, avere pazienza e rimettersi in cammino verso un mare aperto.

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