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Peperoncino, simbolo della Calabria: riti e tradizioni da salvare dall'attacco dei “masterchef” in tv

«Prima che un saggio di antropologia e storia alimentare, questo libro è il racconto di esperienze, emozioni, sentimenti, fughe, ritorni ed eventi vissuti, memoria e nostalgia di luoghi e di persone». Così scrive nel suo bel libro “Storia del peperoncino. Cibi, simboli e culture tra Mediterraneo e mondo” (Donzelli) Vito Teti, antropologo e scrittore, ordinario di Antropologia culturale dell’Unical, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche “Antropologie e Letterature del Mediterraneo”.

Un saggio in cui il sentimento del peperoncino partecipa della storia non meno che del senso dei luoghi cui Teti ha dedicato tanti suoi importanti saggi, da “Storia dell’acqua” (Donzelli, 2003), a “Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea” (Meltemi), da “Fine pasto. Il cibo che verrà” (Einaudi, 2015) a “Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni” (Donzelli, 2004 e 2014) a “Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale” (Rubbettino, 2015). Una lunga recherche in cui la madeleine personale e testimoniale dell’autore conferisce fascino a tutte le narrazioni. E proprio nel centro di quella madeleine c’è una presenza “archetipica”, il peperoncino, di cui Teti, con un’operazione gastroetica sapida e sapiente, ricostruisce la storia, al di là dei mitologemi legati all’universo peperoncino.

Che il peperoncino sia totus della Calabria non è vero e perciò Teti, calabrese di San Nicola da Crissa (VV), ritenendo che le «associazioni peperoncino, identità, calabresità siano deleterie per la Calabria e per la stessa gastronomia regionale», dopo una premessa “proustiana” in cui scava nella sua memoria del peperoncino, riporta sulle giuste coordinate geografico-temporali l’origine tutta americana di questo frutto delle solanacee. Questo per evitare il pericolo di una Calabria angusta e folklorizzata che sul “complesso” del peperoncino ha costruito un’immagine stereotipata ben lontana dalla sua storia, nobile e ricca benché complessa.

Infatti, nel trionfo di sagre, festival e iniziative in cui il peperoncino è sovrano e moltiplicatore di esperienze – avverte Teti – bisogna evitare di «pensare che l’identità, anche culinaria, di una regione del mondo sia qualcosa di definito e chiuso». Dunque, all’inizio, prima che Colombo scoprisse l’America, in Europa esisteva solo il piper, il pepe nero e bianco giunto nel Mediterraneo agli albori della civiltà antica e impiegato prima nella cucina greca e romana, poi nella cucina e soprattutto nella farmacopea medioevale, tanto che la «follia del pepe e delle spezie» alimentò le attività commerciali con l’Oriente. E, infatti, fu proprio per cercare una rotta diversa per le Indie che Colombo scoprì nell’eden del Nuovo Mondo il peperoncino, l’axí, come veniva chiamato dall’ammiraglio nella sua relazione di viaggio, una pianta meravigliosa dall’origine antichissima (gli scavi archeologici la segnalano coltivata in Messico nel periodo tra il 7000 e il 5000 a.C.) i cui frutti, dolci e piccanti, con le loro varietà, quando giungono nel Vecchio Mondo, con i numerosi scambi tra paesi lontani, ridefiniscono una geografia variegata del peperoncino.

La cucina, il cucinare ci ha permesso di convertirci in una specie migrante, quindi – scrive Teti – «per uno dei paradossi della storia, le spezie dell’Asia e dell’Europa costituiranno – insieme alla triade mediterranea di olivo, vite, grano, e agli agrumi – uno degli apporti principali alla cucina del Nuovo Mondo, mentre il peperoncino (con patata, pomodoro, mais) diventerà l’emblema di una nuova economia-mondo, forse il primo elemento globale».

Democratico, inclusivo e interclassista, il peperoncino è l’unità minima di una globalizzazione del gusto, che se si diffonde dalla Francia alla Germania, dalla Spagna all’Ungheria (in questo paese portato dagli invasori turchi, dopo la battaglia di Mohács), dal Nord al Sud Italia, disegna, assieme al pomodoro e alla patata, soprattutto a partire dall’Ottocento, una nuova geografia alimentare che nel Meridione d’Italia interpreta l’alimentazione come espressione di una civiltà fondata sul senso della sacralità del cibo.

Tra sfumature di rossi (e di gialli e verdi), ‘u pipi russu, o diavolicchiu o cancarineddu, fresco o essiccato, in polvere o in scaglie, esibisce un lusso cromatico che contamina piaceri alimentari e capacità salutari, capace di declinare in mille modi, insieme alle erbe aromatiche, le pietanze, dalla più semplice e popolare alla più raffinata e aristocratica, dalla ‘nduja alla sardella, dal morzeddhu agli ortaggi, dai legumi alle pitte, dalle carni al pesce.

I calabresi diventano sentimentali quando si parla di peperoncino, in questo uguali agli ungheresi con la loro paprika (simili in Italia e in Ungheria le reste di peperoni secchi per ornamento, augurio e protezione contro il malocchio, identico l’uso del peperoncino nelle pietanze), perché nella Calabria tutta, compresi i suoi paesi arbëreshë, come tra i calabresi d’America e del Canada, il peperoncino è un pensiero che partecipa dell’emozione non meno che dell’identità. Nel terreno comune di contaminazioni, non solo di sapori e di aromi, ma soprattutto di culture, il peperoncino è un’esperienza estetica e sinestetica che quando è vruscente (bruciante) ha acceso anche l’immaginario erotico.

Su tutto ciò è stata costruita una letteratura popolare e colta alimentata dalle utopie alimentari dei popoli mediterranei che Teti testimonia nella sua costante operazione di salvare parole, riti, tradizioni, ricette (riportate in appendice al volume), atmosfere conviviali, che resistono ancora, benché in Calabria, come in tutta l’area del Mediterraneo, in un mondo invaso da cuochi, dietologi ed esperti e minacciato dal non-cibo di non-luoghi, essi rischiano di essere sommersi.

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