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Noi così lontani, così vicini

E così è giunta a termine la mia esperienza didattica a distanza di docente di Antropologia Culturale all'Università della Calabria. E, per uno dei paradossi della vita, è giunta a termine anche la mia esperienza di docente in assoluto, dal momento che il primo novembre andrò in pensione e se continuerò, come è quasi certo, ad insegnare ancora, lo farò dopo il mio pensionamento. Per il mio saluto, anche simbolico, di gratitudine, alle studentesse e agli studenti di una vita, avevo immaginato un bel corso all'insegna del dialogo, dello scambio, del rapporto tra docente e studenti, ma anche tra persone. Ma non siamo sempre noi a decidere.

Quel 25 marzo in cui ho iniziato i corsi vivevo con un misto di apprensione, timore, disagio, senso di responsabilità un percorso a cui non ero preparato. Ho sempre diffidato - e non ho molta familiarità - di social, comunicazione a distanza, streaming. Temevo, dinnanzi allo schermo vuoto, alla mancanza di volti da guardare, della ressa e delle voci, di quella baldoria festosa, spesso incontenibile, che comunque mi metteva a mio agio, di potermi “bloccare”, essere troppo accademico e distante. Diversamente dalla maggior parte dei colleghi delle altre Università, che avevano deciso di registrare la loro lezione, scelsi la via della diretta streaming, perché pensavo - e non mi sbagliavo - che era l'unico modo per “vedere” gli studenti, “sentire” le loro voci, sperare in qualche domanda o dialogo, e anche mantenere un livello d'improvvisazione e di fantasia, d'imprevisto che le lezioni devono avere (spesso, pure essendomi sempre preparato una scaletta e una traccia, finivo col fare una lezione del tutto diversa, che nasceva da una domanda degli studenti, dal loro sguardo, dalla loro attenzione, dal loro sbadigliare, dal loro sorridere).

Mi venne l'idea, prima di iniziare la lezione, di mettere sulla pagina della piattaforma un mio saluto di benvenuto, in cui raccontavo anche le mie perplessità, il mio disagio. Scrivevo che osservando lutti, dolori, morti, sacrifici di tanti mi sembrava che avessimo la necessità e la responsabilità di andare avanti. «Non “preoccupatevi” (fatelo nel “giusto senso”) dell'esame - scrivevo - . La vita vi ha dato un esame più grande da affrontare. A voi e a noi. Questo vuol dire impegnarci assieme per capire, anche grazie all'antropologia culturale, cosa ci sta succedendo, cosa accade nelle nostre case, nei nostri paesi, nel mondo».

E il nostro comune esame ebbe, fin dall'inizio, i suoi riscontri immediati, positivi. Quell'essermi presentato come docente, ma anche come persona che condivideva umori, sentimenti, paure di tutti, anche con le mie fragilità, giunse a destinazione, come avrei capito da tante mail e lettere ricevute. Dopo le prime lezioni pensai che forse si poteva tentare di raccontare, io e loro, il modo di vivere in casa, i nostri sentimenti, cosa stava cambiando dinnanzi ai nostri occhi, nelle nostre case, nei paesi vuoti, negli spazi virtuali. L'antropologia culturale - con un corso che già prima si interrogava su concetti e termini come catastrofe, calamità, cultura, identità, “presenza”, fine del mondo, apocalisse, comunità, persona, rigenerazione, luogo, città, nostalgia, lutto, melanconia, viaggio, ritorno, restare - diventava così una grande fortuna, un'opportunità e, come avrebbe detto qualcuno, una sorta di terapia, una via per conoscerci e per salvarci. Proposi agli studenti di mandare scritti, brevi, lunghi, di getto, a flusso, meditati su quello che stavano vivendo. Ci inventammo un spazio comune (in collaborazione con la rivista “Il Sileno” che avrebbe anche raccolto e pubblicato i tanti racconti): “Memoranda. Memorie, riflessioni, racconti per il futuro”, una rubrica con lo scopo di raccogliere le “memorie” della vita quotidiana nel tempo presente. Credo sia venuto fuori uno dei più bei diari collettivi, costruiti nel mezzo della pandemia, mentre parlavamo di antropologia.

Mi hanno colpito degli studenti la passione, la partecipazione, il desiderio di affermare una presenza, di raccontarsi, che coinvolgevano anche le persone con cui abitavano. Si soffermavano sulla casa, le feste, la settimana Santa, i rapporti, le amicizie, il paese “prima” e “durante” la pandemia. Abbiamo, col passare dei giorni, sperimentato alcune delle possibilità che i nuovi mezzi ci davano: scambio di informazioni, notizie, materiali, collegamenti con iniziative di altre università italiane, presentazioni di opere di saggistica e di narrativa (Nadia Terranova, Sonia Serazzi). Alla fine siamo riusciti a creare un piccola comunità.

Ho verificato ancora una volta quanto siano fuorvianti e ingenerose le immagini dei giovani indifferenti, apatici, che non stanno ad ascoltare. Ho capito, grazie alle lezioni “a distanza”, come la “puntualità”, la “tensione”, la “precisione”, l' “ascolto” debbano essere ancora di più perseguiti e tenuti in conto quando si tornerà alle lezioni da vicino. Le lezioni a distanza sono state un enorme esperimento sociale e pedagogico, da cui sono emerse criticità ma anche potenzialità, e adesso abbiamo molta più esperienza per programmarne usi più mirati. Un'altra didattica, altre forme di incontro e di dialogo, di erogazioni del sapere, un'altra Università sono possibili, ma la condizione è che si torni immediatamente alle lezioni e alla didattica nelle aule, nei campus, nelle classi. Dei rapporti diretti non si può fare a meno. La voce e le mail che ricevevo dagli studenti hanno alimentato la mia curiosità, mi hanno impegnato a essere attento e rispettoso, presente, ma hanno acuito grande nostalgia per i volti, le espressioni, i contatti diretti. La virtualità non sostituisce la corporeità. In attesa di avveniristici, ottimistici o apocalittici, scenari, dobbiamo avere ben chiaro che i gruppi umani, le comunità, grandi o piccole, strutturate o liquide, son fatte di relazioni, scambi, parole, rumori, sguardi. L'antropologia culturale che io immagino dev'essere anche racconto, viaggio, scoperta, curiosità, incontro, dialogo: tutto ciò richiede presenza, vicinanza, contatto.

La nostra felice interazione lo ha dimostrato: un'altra Università è possibile. Bisogna che tutti si mettano in gioco. Che non si torni all'Università di prima, ai tagli e alle mortificazioni subite dalla didattica, ai giochi di potere della politica e dell'accademia, ai percorsi di studio sganciati da possibili sbocchi professionali. La didattica e la ricerca vanno potenziate, non solo a livello economico: devono diventare strategiche pensando al futuro dei giovani. Bisogna riaprire al più presto, con tutte le sicurezze e gli accorgimenti necessari, le aule, i campus, le biblioteche, i teatri, i luoghi di socialità. Al più presto. Gli studenti e i docenti dovrebbero essere protagonisti, anche alla luce di questa esperienza di didattica a distanza, di un'opera di rinnovamento e rigenerazione dell'Università, luogo di sapere, di aggregazione, di formazione, in cui la distanza fisica e naturalmente quella sociale (anche nel senso di classe sociale) vanno annullate.

L'articolo nell'edizione di oggi della Gazzetta del Sud

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