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Letteratura, patria dei senza patria. Cercas: "Sono scrittore perché sono stato sradicato"

Perché leggiamo? Per imparare a comprendere il mondo, evadere o per divertirci? E in cosa consiste la buona letteratura? Sono quesiti senza tempo, centrali per chiunque ami le storie di carta e l’eco nella vita reale, in un gioco di rimandi senza fine.

Le affrontiamo in questa intervista al celebre romanziere spagnolo Javier Cercas – celebre per “Soldati di Salamina” (appena trasposto in graphic novel con José Pablo Garcia) e “Anatomia di un istante” - fresco vincitore del Premio Planeta 2019 con “Terra Alta” (Guanda, pp.384 €19 tr. Bruno Arpaia), un thriller ambizioso, un omaggio ai Miserabili di Victor Hugo, raccontando la storia di Melchor, un uomo che finisce in carcere e poi sceglie di diventare poliziotto senza cancellare le ombre del passato. In Catalogna, a Terra Alta, si troverà ad indagare su un triplice omicidio, facendo personalmente i conti con i concetti di giustizia e vendetta, etica contro sangue, vita contro morte.

Terra Alta sembra un western moderno in una zona di confine. Come è nato questo libro?

«Tutto nasce dalla pubblicazione de “Il sovrano delle ombre”, il mio penultimo libro, il più difficile che ho scritto, perché tratta il tema della mia famiglia, l'eredità della guerra civile e il franchismo (il protagonista di quel romanzo è stato per molti anni "l'eroe" ufficiale della mia famiglia: il mio prozio materno che si arruolò nell’esercito di Franco, morto in combattimento nella battaglia dell'Ebro, la più sanguinosa della Storia della Spagna, nda). Ebbene, dopo averlo terminato, ho capito che se avessi continuato sul medesimo percorso letterario, correvo il rischio peggiore per uno scrittore, quello di ripetersi, di diventare un imitatore. Un pericolo enorme, la morte in vita di uno scrittore perché, sebbene i suoi libri continuino ad essere pubblicati, letti e lodati, non può più dire cose nuove e quindi, sta ingannando tutti».

E com’è andata?

«Ho deciso di reinventarmi. Mi è costato molto lavoro, ma il risultato è un romanzo che vuole essere radicalmente diverso dai miei precedenti romanzi e, allo stesso tempo, radicalmente fedele ad essi. Del resto, in tutti i miei libri - e, in effetti, in quasi tutti i romanzi che mi piacciono, a cominciare da Don Chisciotte - c’è qualcosa del romanzo poliziesco, almeno nella misura in cui c'è un enigma e qualcuno che cerca di decifrarlo. E allora sì, potremmo ben dire che questo libro è un western travestito da thriller, una sorta di esperimento letterario, che mi ha aperto un nuovo territorio che ora cercherò di colonizzare».

Una parte della critica pensa che la letteratura non possa intrattenere. In tal senso, Terra Alta è un inno alla libertà creativa?

«Lo spero: senza libertà creativa non c'è vera letteratura. Quanto a coloro che pensano che la letteratura non debba intrattenere, si sbagliano. Cervantes è estremamente divertente, come Kafka o Borges. La letteratura è prima di tutto un piacere, come il sesso: se non c'è piacere, non c'è niente; ma oltre ad essere un piacere, la letteratura, proprio come il sesso, è una forma di conoscenza di sé, degli altri e del mondo. Non leggo per soffrire: leggo per divertirmi e quel godimento può richiedere un certo sforzo, ma non smette di essere godimento. La cosa migliore che può capitare a una buona letteratura è che sia anche popolare».

Il suo protagonista, Melchor si è perso e si è ritrovato leggendo I Miserabili. Un uomo può liberarsi dall'ombra del male?

«Certamente: è quella cosa chiamata libertà. La scoperta di Les Miserables di Victor Hugo per Melchor fu una vera rivoluzione. "De te fabula narratur", recita un verso di Orazio: “la storia parla di te” e ciò è esattamente quello che accade a Melchor».

I Miserabili hanno cambiato la vita di Melchor. C’è un libro che le ha cambiato la vita?

«Parecchi e non tutti buoni come I Miserabili. Ne cito uno: “San Manuel Bueno Martire”, una novella di Miguel de Unamuno (uno dei più importanti scrittori spagnoli del XX secolo). L'ho letto a 14 anni. Fino ad allora ero stato un lettore innocente che si nutriva principalmente di romanzi d'avventura e libri di storia, un lettore bambino che leggeva solo per divertimento. Quell'estate però mi innamorai per la prima volta di una ragazza che abitava a mille chilometri da casa mia e la cosa mi stravolse.

E quando sono tornato a casa, senza alcuna possibilità di rivedere la ragazza, sono andato a cercare il libro più serio che ho trovato in casa e, sfortunatamente, era proprio il libro Unamuno. È la storia di un sacerdote che ha perso la fede e che, nonostante ciò, continua a predicarla perché pensa che, senza religione, la vita di questi poveri innocenti mancherà di significato. Ebbene, l'effetto che la lettura di quel romanzo ha avuto su di me è stato tremendo, quasi come I Miserabili su Melchor: fino ad allora ero stato un ragazzo cattolico, un atleta e un ottimo studente, ma in quel momento ho perso per sempre la fede, ho iniziato a fumare e a bere birra, entrando in un periodo di confusione da cui non sono ancora uscito».

E poi?

«Dopo aver letto tutti o quasi tutti i libri di Unamuno, sono diventato un lettore completamente diverso, un lettore di vampiri, che non legge solo per divertimento, ma per incontrarsi e conoscersi, quasi per sopravvivere. E ho concepito la sciocca ambizione di diventare uno scrittore. In un certo senso, la letteratura un sostituto della religione, cercando di sostituire le certezze infantili della fede con quelle della letteratura. Il che ovviamente è assurdo, perché la letteratura non fornisce mai certezze ma verità ambigue, contraddittorie, sfaccettate e inquietanti».

Ha poi riletto quel libro in età adulta?

No. Mi dicono sia splendido e ci credo. Ma la verità è un’altra.

Prego

Come dice uno dei personaggi di Terra Alta, "metà del libro viene messo dall'autore, l'altra metà dal lettore". Quindi, anche se rileggessi San Manuel Bueno Martire, non leggerò più lo stesso libro, perché non sono più quell’adolescente innamorato di anni or sono».

Melchor dopo il carcere e dopo aver letto I Miserabili, è un uomo nuovo. Nella nostra società il valore rieducativo del carcere viene messo periodicamente in discussione. Lei cosa ne pensa?

«Non sono un ingenuo, non è stata la prigione a salvare la vita di Melchor ma il potere della letteratura. In prigione, la maggior parte dei detenuti diventa schiavo e la maggior parte delle prigioni non servono a rieducare ma a punire. Per questo motivo la civiltà di un paese si misura dalla qualità delle sue scuole e delle sue prigioni».

C'è almeno una domanda fondamentale nel romanzo: quando non c'è giustizia, la vendetta è legittima?

«Sì, per me scrivere un romanzo consiste nel porre una domanda complessa nel modo più complesso possibile; e non intendo affatto rispondere, o almeno non in modo univoco ed esaustivo».

Perché?

«La risposta che un romanzo dà alla domanda che pone, consiste proprio nella ricerca di una risposta, nel senso della domanda ovvero nel libro stesso. Naturalmente vorrei poter dire che la vendetta non è mai legittima ma gli scrittori devono sfidare le proprie certezze, porre il lettore in una zona morale di disagio, mostrare che la realtà può essere più complessa di quanto crediamo di sapere».

È questo il compito della buona letteratura?

«Esattamente. Quando ero giovane volevo essere uno scrittore postmoderno, ora sono convinto che la letteratura debba essere utile, spingendoci a cercare di superare i nostri limiti morali, cercando di comprendere – non giustificare - il male, per poterlo combattere senza scadere nella propaganda o nella pedagogia».

L’esplosione del Covid-19 ha sconfitto i populismi, ma come sarà l'Europa di domani?

«Sei certo che il Covid abbia sconfitto il populismo? In Italia sembra che abbia rallentato un po’ ma durerà e cosa accadrà in Europa? Il populismo nazionale è stato il frutto politico più velenoso della crisi del 2008, così come il fascismo, o il totalitarismo in generale, sono stati il ​​frutto politico della crisi del 1927. La storia non si ripete mai esattamente, ma spesso lo fa sotto maschere diverse, e in un certo senso l'attuale populismo nazionale - il cui volto più visibile è Donald Trump - è la maschera postmoderna del fascismo degli anni '30. Non voglio essere minaccioso ma è ancora presto per cantare vittoria».

Con quale spirito guarda al futuro?

«Sono certo che verremo fuori dalla pandemia ma come? Saremo noi, con le nostre azioni, a determinare il futuro. E non riesco a smettere di ricordare la definizione della parola "anno" che Ambrose Bierce dà nel suo Dizionario del diavolo: "Anno: periodo di trecentosessantacinque delusioni"».

Dopo tanto vagabondare, Melchor trova la sua patria. E lei?

«Per Cervantes, la patria non ha quel retrogusto tossico moderno, ma è quel posto piccolo e gestibile dove hai la tua famiglia, i tuoi ricordi, quel luogo in cui - questa è la definizione di patria di Voltaire - ti senti libero. A volte penso di essere uno scrittore perché sono stato sradicato, perché ho perso il mio posto nel mondo e non l'ho mai più ritrovato. A volte penso di scrivere per dare un nuovo significato alla parola patria. A volte penso che la mia unica patria sia la letteratura».

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