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Mina ricanta (e incanta) cinquant’anni di musica italiana

Semmai, chiamiamoli florilegi. “Italian SongBook” (già disponibile in pre-order, in uscita domani in digipack e doppio vinile a colori) non è una raccolta di cover, non è una compilation, men che mai un greatest hits. “Italian SongBook” è Mina, è cinquant’anni di musica italiana rivista attraverso i suoi occhi. Uno sguardo ampio e profondo fin dove pochi (troppo pochi e sempre meno) sanno spingersi, è più in là. “Italian SongBook” è la filologia del nostro repertorio riordinata attraverso gli schemi artistici d’una diva immensa, un’enciclopedia che suona l’Italia, che sa d’Italia. E che ha saputo cogliere tracce ormai irreperibili, puntando un faro su cose che mode e tempi avevano oscurato.

Costellazioni

Il viaggio (che certamente andrà oltre, verso altre mete, attraverso ulteriori tappe) parte da un disco doppio: Cassiopea (PDU- distribuito da Sony Music) e Orione (PDU - distribuito da Warner Music) sono solo i primi due volumi di quella che si preannuncia come un’opera che, anno dopo anno, intende raccogliere ogni stella (caduta, luminosa, eclissata) del cielo che Mina ama e che scompone e ricompone seguendo traiettorie che lei sa vedere. Trenta canzoni in tutto: 28 già edite, dal 1975 (“L’importante è finire”) al 2018 (“Volevo scriverti da tanto”), tra pezzi che canta lei per prima e quelli ripresi dopo l’interpretazione d’altri. E un paio di brani finora inediti: “Un tempo piccolo” (di Gaudino-Laurenti-Califano col testo rimaneggiato dai Tiromancino nel 2005) chiude “Cassiopea”; “Orione” finisce invece con “Nel cielo dei bars”, di Fred Buscaglione (scritta con Chiosso). Fred la cantava nel film “Noi duri” (in cui era nei panni di Fred Bombardone, agente Fbi alle prese con Totò narcotrafficante), che uscì postumo (come il 45 giri “Cielo dei bars”), pochi giorni dopo la sua scomparsa. Mina l’ha sentita, l’ha ascoltata, custodita e restituita bella e donna come mai.

Registrazioni tutte riversate in digitale, restaurate, rimasterizzate, remixate e supervisionate da lei in persona. Come per “Paradiso (Lucio Battisti Songbook)”, dopo aver “riaperto” le tracce dei mixaggi originari (da quelli a 8 e 16 piste per arrivare a quelli da 48), si è lavorato anche su nastri da un quarto di pollice. Risultato? Pulizia assoluta, schiettezza nella dinamica, onestà nella pienezza di suoni e voce.

E nulla al caso. Per le copertine di “Cassiopea” e “Orione”, Mauro Balletti (con Gianni Ronco) ha giocato sulla specularità e sul contrasto fra due colori, il rosso e il blu. Un po’ per rievocare due doppi album storici nella discografia dei Beatles, d’altra parte potrebbe anche essere un gioco nel gioco, una citazione dei classici mazzi di carte da poker di Modiano.

Zum Zum Zum

Certo sarebbe stato sensazionale, probabilmente al limite dell’immaginabile che alla conferenza di presentazione si presentasse lei. Che ci presentasse lei, Mina in persona, pur nello spazio d’uno “Zoom”, le ragioni, le visioni, le sensazioni che hanno fatto di “Italian SongBook” il suo ennesimo capolavoro. Che facesse un passo in qua da quell’alone, dall’aura di mito in cui è legittimamente avvolta, per mostrarsi in carne ed ossa proprio ora, nel momento più smaterializzato del mondo. Non è successo. C’era Massimiliano Pani, suo figlio e produttore, a fare da frontman tra lei e chi voleva sapere di lei. E certo che è assurdo che qualcuno presti la voce a chi come lei, anche quando parla, canta. Ma tant’è.

L’incontro c’è stato comunque, attraverso i racconti, gli aneddoti, le verità. In mezzo al clamoroso giacimento di un’artista pura, indipendente, memoria storica e discografica di se stessa. Magari anche il più grande direttore artistico italiano (al punto che «qualche tempo fa si parlò di Mina alla guida del Festival di Sanremo, un’idea che piacque così tanto alla Rai che nessuno chiamò mai!») e pure talent scout («Tutti mandano a Mina, qualcosa come 4 mila brani l’anno, che lei mette da parte. Finché non trova, prova, prende e rifà nella sua chiave»). Una neo ottantenne in evoluzione che a trovarne in America jazziste “naturali” com’è lei («La forza di Mina sta nella sua libertà di sporcarsi, di mettersi a rischio, nel rifiuto di mettersi comoda»). Mina non ama il pezzo «da Mina». Becca il nuovo dove c’è. Anche tra successi spolpati da altre cover, lei arriva e tira fuori cose che negli originali non ci sono (come quella volta che, dopo aver sentito a Sanremo “La voce del silenzio” di Tony del Monaco e Dionne Warwick disse… «non va fatta così». E infatti la ripresentò a Canzonissima ’68 ribaltandone le sorti).

È esattamente quel che succede anche in questo lavoro. Un pop non pop in cui i bravi (come Danilo Rea e il suo trio che l’accompagna) fanno tutto. Il politicamente scorretto di testi che oggi non sopravvivrebbero alla censura e la fiducia in chi ha avuto coraggio. La grande passione per gli uomini come Buscaglione e Califano, capaci di una insospettabile poesia dell’anima. La legge del “Buona la prima!” perché Mina incide così, perché è lì l’emozione, poi subentra l’accademia. Gli scambi musicali coi nipoti, l’aver capito prima degli altri che la tv stava cambiando.

Il fatto è, parola di Massimiliano, che «l’idea che si ha di mia madre appartiene per lo più allo stereotipo del suo periodo pubblico, che se non sei visibile non ci sei, tanto che quando si vede in tv cambia canale, non parla mai di quella ragazza. Preferisce parlare degli altri, preferisce parlarne bene. Sarà che è più interessante lei di quella Mina giovanissima su una Rai, quella di Antonello Falqui, che era comunque un’altra Rai. Una scelta che, di fatto, ha fatto di lei la più famosa sconosciuta d'Italia”. Giurò: «Più nulla di pubblico». Tradotto: «Tutto per il pubblico». Promessa mantenuta.

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