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Parla Irith Wolfenstein dalla sua casa di Messina: nel nome dei miei vi racconto l'orrore

Israeliana, britannica, messinese: la vicenda della sua famiglia ricapitola la tragedia della Shoah

C’è una via ad Halle (città del land tedesco della Sassonia-Anhalt) intitolata ad Alfred Wolfenstein. Poeta espressionista, drammaturgo, traduttore tedesco, fu perseguitato dal regime di Hitler in quanto comunista, ma soprattutto in quanto ebreo. Secondo la versione ufficiale, Wolfenstein – che nel 1929, durante la Repubblica di Weimar, aveva scritto una commedia contro la pena di morte e i cui libri erano poi stati bruciati nei famosi roghi del 1933 – riuscì a scappare dalla Germania e rimediò a Parigi, dove fu sorpreso dall’invasione delle truppe tedesche nel 1940, imprigionato e poi rilasciato. Malato di cuore e gravemente depresso, all’età di sessantuno anni, il 22 gennaio 1945, Wolfenstein si suicidò in un ospedale di Parigi. Per la sua famiglia, tuttavia, ciò che lo portò a togliersi la vita sarebbe stata l’esperienza di un campo di concentramento.

Sua nipote Irith, energica settantenne insegnante in pensione, conserva questa memoria e con essa anche quella degli altri due nonni, Heinrich e Teresa Leschziener, passati (questi con certezza) dal campo di sterminio di Auschwitz e che lì trovarono la morte. La loro figlia era però riuscita ad andare in Israele e lì aveva conosciuto il padre di Irith. Nata a Tel Aviv, cresciuta a Londra e trasferitasi a Messina nel 1971 per seguire un amore siciliano, la signora Irith, in occasione della Giornata della Memoria dello scorso anno, in uno degli ultimi momenti formativi prima dell’irruzione della pandemia, ha vinto la sua ritrosia e timidezza e ha raccontato della sua famiglia ai ragazzi della scuola media di Villafranca Tirrena, cittadina della provincia messinese.

Prima (e ultima, dice) volta in cui ha voluto parlare. «L’ho fatto per i miei nonni – ci racconta oggi– per dare loro il giusto tributo e anche perché, in un certo senso, mi sento una sopravvissuta, in quanto figlia di due persone che sono scampate in tempo a quell’orrore. È stato bellissimo, non pensavo che gli studenti sarebbero stati così attenti. Mi sono emozionata anche del fatto che i ragazzi hanno poi scritto un pezzo sul loro giornalino di scuola. Il ricordo di chi non c’è più adesso dipende da loro».

«Ciò che ho voluto testimoniare con la vicenda della mia famiglia è che c’è un passato che abbiamo il dovere di raccontare alle nuove generazioni. Un giorno di tanti anni fa, incontrai una persona a Messina che mi confessò che, per paura, non diceva a nessuno della sua origine ebraica e io non ne compresi il motivo. Io non ho mai subito emarginazioni nella mia vita. Solo quando andavo a scuola a Londra, ed ero piccolina (i bambini sanno essere tremendi), non è mancato l’insulto “sporca ebrea”».

E proprio a Londra, per la prima volta, la giovane Irith ha fatto i conti col proprio passato. «Ero poco più che un’adolescente, ci siamo seduti a tavola con mio papà, Frank, e lui ha cominciato a raccontarmi tutto. Di come era scappato di notte, da solo, nei boschi, dalla Germania all’età di sedici anni, quando era salito al potere Hitler, e a me il suo racconto sembrò un film. Era stato arrestato assieme a mio nonno, e, visto che era ancora piccolo, rilasciato, e suo padre gli aveva detto: “Quando esci di qui, vattene via perché sta per succedere qualcosa di brutto. Io ti raggiungerò”.

Poi era fuggito a Praga e in altre città d’Europa, prima di raggiungere Israele. Nel frattempo, grazie a sua mamma, Henriette Hardenberg, poetessa e scrittrice (in corrispondenza con Rilke), che viveva in Inghilterra da tempo perché si era separata da Alfred, ottenne la cittadinanza britannica e combatté in guerra con la Royal Air Force. Di questa storia sapevo già qualcosa da mia sorella, che ha dodici anni più di me, ma sentirla da lui è stato diverso. Quel giorno a Londra ci siamo commossi».

Sebbene Irith non parli ebraico, essendo nata in Israele il legame con “casa” è comunque sempre forte: «Ancora oggi mi commuove dall’aereo vedere che stiamo arrivando a Tel Aviv. Mi sento parte di questa famiglia, anche se non sono praticante». Irith ci mostra le foto di suo nonno che lo ritraggono con altri amici e intellettuali, alcuni dei quali sono morti nei campi di sterminio. «La cosa bella è che i libri di mio nonno che i nazisti avevano bruciato oggi sono studiati sui banchi di scuola e c’è anche una Fondazione a lui dedicata. Una rivincita della cultura sulla violenza».

Ciò che Irith teme più di ogni cosa, però, adesso è l’indifferenza: «Come ci saremmo comportati se fossimo vissuti allora? Temo non diversamente, basta vedere non solo gli ultimi atti antisemiti, ma anche il razzismo dilagante nei confronti di chi viene da una parte diversa del mondo, come i migranti. Il popolo viene facilmente portato a reagire contro un nemico di turno. Sugli ebrei, poi, c’è ancora molta ignoranza e si usa il termine “ebreo” in senso dispregiativo. Un’altra piaga da sconfiggere è il negazionismo. Vorrei avere davanti una persona che dice “non è successo nulla, è tutto inventato”, penso che non riuscirei a controllarmi».

Irith non è mai stata a visitare nessun campo di sterminio, non pensa ce la farebbe. Forse, però, andrà a visitare la via dedicata a suo nonno, quella di Halle, la cittadina tedesca dove nell’ottobre del 2019 un neonazista ha fatto fuoco contro la Sinagoga e dove, pur sempre, prima di portarla sulle rive dello Stretto, è iniziata la sua storia.

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