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Eutanasia legale: il diritto di mettere fine alla vita e il paradigma di Filottete

Un ponte tra ieri e oggi: L’arciere abbandonato, ma anche Giuturna, Titono, Chirone. Quando la sofferenza non lascia scelta né dignità

"Filottete morente". Vincenzo Baldacci, 1807, Pinacoteca Comunale di Cesena

Aveva capito che sarebbe andata così fin d’allora, quando aveva udito in sogno il canto lugubre di quel piccolo uccello che ora svolazza, gemendo, sul volto di Turno. Sapeva che a nulla sarebbe valso stornare con ogni mezzo il pericolo, mentre il fratello si opponeva ad Enea nello scontro fatale: all’alba di un nuovo corso del mondo, non c’è più posto per il sovrano dei Rutuli; la bilancia divina su cui sono stati pesati i destini dei due contendenti ne ha sancito la fine. Ed ora, la presenza di quel piccolo uccello attorno al fratello le dà la conferma: arrenditi, non puoi fare più nulla per differire la morte di Turno.

Lascialo andare, Giuturna, e non pensare di sfuggire al dolore seguendo il fratello nell’Ade, sai che l’amore del re dell’Olimpo ti ha resa immortale. La ninfa guarda il suo manto, che ha il colore dell’acqua sorgiva in cui si specchia l’azzurro del cielo, il colore del mondo che la fa prigioniera. Scegliere tra la vita e la morte non le è permesso; può solo rassegnarsi al dolore, farlo scorrere in sé, acido e freddo, lasciare che la possieda per sempre. Rivolto al campo un ultimo sguardo sgomento, si avvolge nel manto, stringendolo al collo come un nodo scorsoio; poi, si inabissa nel gorgo del fiume, come scendesse nel regno dei Mani.

Nelle stanze dalle porte splendenti, presso le correnti di Oceano, neppure a Titono è concesso morire. È vecchio, vecchissimo, vecchio di mille secoli. Non ricorda quasi più il tempo in cui era un giovane principe a Troia ed Eos dalle dita di rosa lo aveva voluto per sé; sono lontane le notti stellate in cui lei lasciava il suo letto, ancora caldo d’amore, per percorrere sul cocchio la volta celeste, accendendola d’oro. Per concessione di Zeus, ora vive in eterno; Eos lo ha ottenuto per continuare ad amarlo. Ma il tempo, per lui, non trascorre indolore come per gli altri immortali, gli ruba bellezza e vigore. Eos ha dimenticato di chiedere anche l’eterna giovinezza: una dimenticanza fatale.

A poco a poco, mentre i suoi capelli diventavano bianchi e le forze scemavano, la dea aveva smesso di dormire con lui; poi, quando il vigore lo aveva definitivamente lasciato e non era più in grado di muovere e sollevare le membra, lo aveva relegato in quelle stanze ai confini del mondo, in compagnia della sua stridula voce. Sì, perché a questo si era ridotto il vecchio Titono: non era altro che voce; parlare era la sola funzione che non gli fosse interdetta. Inchiodato al suo letto, vivere per lui equivaleva a parlare: ma è vivere questo? È davvero un bene non potere morire?

Non lo pensa Chirone, ora che la freccia di Eracle, ancora intrisa del veleno dell’Idra di Lerna, gli si è conficcata nel piede. Un attimo di distrazione è bastato a gettarlo in quel baratro di dolore fatale. Eppure, su quello stesso monte che ora risuona solo delle sue grida, poco prima insegnava ad Achille a trarre melodie dalla lira; lì, nella sua grotta tra i boschi, solo un attimo prima aveva accolto, festoso, Eracle. Un attimo: quanto è bastato perché tutto cambiasse.

Il sapiente centauro ha estratto la freccia, ha pestato nel mortaio planetaria e piantaggine, ne ha fatto un cataplasma per la ferita: ma il veleno dell’Idra è più forte di qualunque rimedio, penetra in fondo alle ossa bruciandogli i nervi e la carne, Chirone non lo può contrastare. Eppure è lui che ha insegnato ad Asclepio la medicina; «Eppure sei tu – implora fra le lacrime il giovane biondo – che hai guarito il mio piede, quando lo aveva ustionato il desiderio materno di farmi immortale. Guarisci ora il tuo». Ma non c’è guarigione da questo male, al di là della morte. La morte che Chirone ora agogna, sapendo, lui che è immortale, di non poterla ottenere.

Non solo a Chirone è toccato soffrire atrocemente per una ferita. Una piaga purulenta, che le erbe di Lemno possono solo, momentaneamente, sedare, tormenta il piede di Filottete, abbandonato sull’isola brulla dai compagni, disturbati dai suoi lamenti e dall’odore della cancrena. Di giorno, il povero zoppo si trascina a caccia di uccelli con l’arco ereditato da Eracle; di notte, quando il silenzio è rotto dal fragore delle scogliere, sogna di tornare in patria, riabbracciare suo padre, affidare la sua ferita alle mani sapienti di chi possa sanarla, con arte e medicamenti a lui ignoti.

Invoca la morte ogni giorno, quando il dolore lo stringe nella sua morsa d’acciaio, annunciato da un fiotto di sangue nero, e in qualche modo ne sperimenta per un poco la pace, quando il sonno lo accoglie, pietoso, finito l’attacco. Eppure, non è ancora pronto a morire; se lo fosse, non arrancherebbe col suo piede malato verso la preda colpita, non si affannerebbe a cercare di che dissetarsi, a suscitare la scintilla del fuoco dallo strofinio di due pietre. Non è pronto a morire: almeno, finché quel dolore gli lascerà intervalli di tregua, finché lo strazio non prenderà il sopravvento. È qui il discrimine tra il Centauro e lui: Filottete vuole ancora vivere, ma sa che potrà morire quando il dolore si farà intollerabile.

«Io a oggi voglio ancora vivere – dichiarava ad agosto, in piena campagna referendaria per l’eutanasia legale, una dei suoi testimonial – ma voglio anche sapere di poter morire se e quando le cose peggioreranno e diventeranno non sopportabili». Con grande fierezza, Laura Santi invocava che venisse riconosciuto a chi soffre un diritto alla morte, chiedeva di guardare senza pregiudizi al dolore, di avere empatia. Gli antichi tutto ciò lo hanno fatto, lo dimostrano i miti che hanno forgiato. A Chirone, infatti, Zeus concederà di scambiare la sua immortalità con la mortalità di Prometeo; a Titono, cui era rimasta vitale solo la voce, la metamorfosi in una cicala restituirà la dignità della vita. Solo Giuturna viene lasciata a fare i conti con il proprio dolore, ma la ninfa non può non sapere che il suo è un dolore che prima o poi tocca a tutti, di quelli che dobbiamo addomesticare imparando a conviverci: non si cambiano le leggi divine per questo dolore.

L’8 ottobre si è chiusa la raccolta firme per l’abrogazione parziale della legge 579 c.p.; oltre un milione e duecentomila cittadini hanno chiesto che il parlamento ci consegni una norma sul fine vita in cui l’eutanasia sia resa legale, come accade in altri Paesi. Siamo vicini a una svolta? Davvero chi sceglierà di morire non sarà più costretto a muoversi clandestinamente, lasciando l’Italia, davvero non rischierà più una condanna penale chi avrà l’empatia di aiutarlo? Sembra di sì, se solo il parlamento prenderà atto della volontà popolare. E di fronte a questa prospettiva è persino possibile, come auspicava per sé Laura Santi, trovare la forza per affrontare meglio, alla maniera di Filottete, la malattia: continuando ad assaporare la vita al di là di ogni limite fisico, quando il male dà un po’ di tregua, nella consapevolezza che, però, quando lo strazio sarà intollerabile, se ne potrà prendere congedo. Senza sotterfugi e con dignità.

*Professore associato di Filologia
classica e Drammaturgia
classica, Università di Messina

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