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Saffo, la parola, la bellezza. Un canto che non muore

Io sono la mela. Una storia scritta da Beatrice Masini

Nella casa di Saffo abitata dalle Muse, Beatrice Masini, editor, scrittrice, traduttrice, entra in punta di piedi con la sua storia “Io sono la mela. Una storia di Saffo”, attinta al mondo della poetessa di Lesbo che tra VII e VI secolo a. C. «ha bevuto le storie come se fossero acqua». Assieme alla Masini, in questa rilettura illustrata di Saffo, c’è Pia Valentinis con le sue splendide immagini (e insieme, Masini e Valentinis, sono state vincitrici, per diverse categorie, del Premio Andersen), ad impreziosire un volumetto in carta naturale, ecologicamente responsabile, in cui si respira bellezza. E che ci racconta molte cose su come viaggiano le parole, su come la poesia attraversa la porta del tempo.
Così la “cantatrice” di “Solon”, uno dei Canti conviviali di Pascoli, Saffo la bella, che reca novelle al convito e fa dire al saggio legislatore, dopo aver udito il suo canto, «ch’io l'impari, e muoia», entra dopo duemilacinquecentonovantuno anni nella casa delle parole e delle immagini delle due autrici, portando con sé la forza e la bellezza della sua storia insieme al respiro immortale della poesia.
Poche sono le notizie sulla vita di Saffo, certi la sua appartenenza a una famiglia ricca e aristocratica dell’isola dell’Egeo, il suo esilio in Sicilia, qualche nome dei suoi familiari e delle sue allieve, la sua amicizia con Alceo, la sua scuola, il tiaso di fanciulle, e le sue parole, il bel canto che non muore. Ma Masini e Valentinis entrano nell’intimità della poetessa con il potere della sensibilità femminile, con le certezze del cuore, e con l’affinità di chi sente la natura, il mondo, l’altro, l’amore. Perciò entrambe toccano la loro lira per raccontare, tra dati reali e invenzione, la storia di Saffo, che porta il sapere nel nome, prima piccola neonata bruna, nata dopo i fratelli, che «apre gli occhi neri e li fissa su qualcosa di lontano che vede solo lei», poi fanciulletta che, sfuggendo alle regole imposte dal gineceo, insieme al telaio impara a tessere le parole. E quindi ragazza curiosa, desiderosa di ascoltare le storie, ma non quelle di guerra, e poi giovane donna consapevole che «se per una cosa c’è una parola, puoi fermarla, e tenerla con te, anche se non la tocchi. Basta scriverla».
Perché «nel mondo di Saffo ci sono più parole che cose. Perché le parole dicono anche le cose che non ci sono, che non si possono toccare o guardare ma solo sentire». È per questo che Saffo scrive, benché sappia che le storie possono essere veleno e medicina. Ma sono prima di chi le racconta e poi di chi le ascolta. Così, quando da maestra si prende cura delle sue allieve, per fermare le emozioni deve scrivere. «Quando scrive tutto diventa suo. Il cuore, per esempio. Il suo cuore è una mela che diventa rossa piano piano. Tondo, forte, zuccherino. Solo. Nessuno ancora l’ha sfiorato, nessuno l’ha fatto tremare sul ramo. A cosa serve una mela se nessuno la mangia? A cosa serve un cuore se nessuno lo tocca?».
Perciò, come mostrano le autrici, dopo duemilacinquecentonovantuno anni, quel canto che entra come un fuoco lieve sotto la pelle, quel cuore che entrando nel cuore dell’altro fa palpitare il mistero dell’amore, quella parola che fa guardare con occhi nuovi luna, stelle, rose, prati, cavalli, mare, la bellezza che muta, e ancora il cuore, il desiderio e la vita, quella parola che dice ciò che si ama, «l’amore e basta», è perenne nella sua modernità.

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