E se i trucchi di teatro diventano strumenti di morte? Camilla Läckberg e il killer illusionista
Magia o illusione? Quando cade il sipario, un attimo prima degli applausi di sollievo, la domanda aleggia sul pubblico in sala. I grandi maghi – Harry Houdini, in primis – sfidano la morte a viso aperto, osando sino al limite e ben oltre. Ma cosa succede se le scatole magiche e i trucchi escono dal teatro e diventano uno strumento di morte? Ruota su questa inquietante domanda “Il codice dell’illusionista” (pubblicato da Marsilio, tradotto Laura Cangemi e Alessandra Albertari) il nuovo thriller firmato dalla regina del crime scandinavo, Camilla Läckberg, in cui appare una inedita coppia di investigatori: la poliziotta Mina Dabiri e il mentalista Vincent Walder, uniti nella caccia ad un serial killer sanguinario. Il racconto parte con un brutale omicidio, l’assassinio di una donna, rinchiusa in una cassa di legno – una cosiddetta “sword box” – con il corpo trafitto da diverse spade, come in un trucco di magia finito tragicamente. E ancora, un corpo tagliato a metà – il trucco della “zig-zag lady” – e un orologio lasciato accanto al terzo corpo mentre l’adrenalina sale, dando il via ad un terribile conto alla rovescia. Comprensibilmente, la polizia di Stoccolma rimane perplessa e le indagini vengono affidate ad un team di cani sciolti che chiamerà in causa Walder – un vero conoscitore del linguaggio del corpo e del mondo dell’illusionismo – lanciandosi sulle tracce del killer, che intanto è a caccia di nuove prede per realizzare altri truci fantasie. Nel mondo del thriller nordico – che ormai domina incontrastato il mercato in libreria e la produzione di serie tv – , il nome di Camilla Läckberg è una garanzia assoluta con 29 milioni di copie vendute il ben 60 paesi e “Il codice dell’illusionista” – diciamolo senza fronzoli – è una sfida ambiziosa ma vinta con successo. Con questo titolo l’autrice svedese ha dato il via al primo capitolo di una trilogia scritta a quattro mani con il mentalista connazionale Henrik Fexeus, riuscendo a creare una immediata empatia con la detective Mina Dabiri, una donna forte e consapevole del proprio ruolo in divisa, ma ossessionata dai germi e incapace di gestire qualsivoglia contatto fisico, in un continuo balletto fra la necessità di svolgere il proprio dovere e l’impulso a fuggire via, mettendosi in salvo e assecondando la propria fobia di sentirsi «pulita e decontaminata […] come una tela liscia priva di qualsiasi impurità». Al suo fianco Walder, un grande professionista capace di ammaliare la folla sul palcoscenico ma che rivelerà altre fragilità, assillato dall’ordine e dalla simmetria degli oggetti che lo circondano. Tutto ciò crea una coppia di protagonisti zoppicanti, frangibili e finalmente umani, in cui noi lettori – specie adesso, fra gel e mascherine – possiamo riconoscerci, condividendo anche una certa misantropia. L’idea fulminante de “Il codice dell’illusionista” è quella di aver voluto lavorare sul concetto di un trucco di magia finito nel peggiore dei modi – unendo la penna dell’autrice alle conoscenze di Fexeus – facendo entrare in scena un killer che ingaggerà una lotta con Dabiri e Walder, una contesa che metterà ogni cosa a repentaglio. Ma non solo, perché i due co-autori sono riusciti anche ad inserire altre istanze della società che cambia davanti ai nostri occhi e così nel team dei poliziotti che indaga troviamo anche il classico esempio dell’uomo misogino che considera le colleghe come corpi da spogliare e da cui trarre piacere (e senza fare alcun spoiler, sappiate che verrà messo in riga!).