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"Giocare" sulla scacchiera della vita: Federica Piacentini a Messina per presentare "Comincia a Brooklyn"

La storia di un ragazzo che vuole vincere la malattia della madre

Federica Piacentini, editor e insegnante di Scrittura Creativa

Sembra venire fuori dalle pagine di Dickens, Martin Gale, protagonista di “Comincia a Brooklyn” (Nutrimenti), il bel romanzo d’esordio di Federica Piacentini, nata a Gaeta nel 1983, studi classici, laurea in Editoria e Giornalismo e master in Scrittura Creativa ed Editing. Federica, che da tempo vive a New York, ed è editor e insegnante di Scrittura Creativa, ha “dato alla luce Martin dopo averlo sognato" -così dice- e da quel momento è stato necessario formarlo, accudirlo, così Martin è diventato quel ragazzino beneducato, pieno di sentimenti, che «si fa parlare dai versi» dell’Iliade, che guarda il cielo con il cannocchiale ma che sulla terra «vuole muoversi con agilità tra le caselle bianche e nere del tempo e della vita». Perciò vuole imparare a giocare a scacchi, per vincere un torneo e guadagnare i soldi necessari alle cure della sua amatissima madre Leah, seriamente malata.

Bravo a scuola, non bada tanto alla condizione modesta in cui vive perché è circondato dall’amore di Leah e di Mama Jean che li ospita e accudisce entrambi, e non gli manca neppure l’affetto dei nonni materni Myriam e Theo, emigrati greci proprietari di un bar. Crede nell’importanza dei maestri perciò per gli scacchi ne cerca uno per le strade di New York dove nella grande scacchiera della vita, e non solo tra le scacchiere di Washington Square Park, si agitano pedoni, alfieri, cavalli, torri, re e regine.

Così, tra esperienze positive e delusioni, tra dolori e incontri esaltanti, Martin impara che lo scacco matto tocca a tutti, ma va avanti come una torre nella partita più importante della vita: quella dell’impegno e della crescita. Una storia di formazione in cui sono molti «i temi che si sostengono l’un l’altro- dice la Piacentini-, la genitorialità sostiene la maternità, la maternità sostiene la famiglia, la famiglia sostiene l’emigrazione, l’emigrazione sostiene la perdita e l’abbandono. Ma tutto è tenuto insieme dall’amore». Il libro sarà presentato oggi, alle 18.30, a Messina, alla libreria Ciofalo Mondadori.

Federica, un romanzo sull’importanza dell’impegno, con gli scacchi come metafora della vita. Come è nato?
«“Comincia a Brooklyn” è nato attraverso un sogno. Tempo fa, prima di trasferirmi negli Stati Uniti, sognai un ragazzino ritto di fronte a una scacchiera, ma non sapevo null’altro. Non c’era uno sfondo, un’ambientazione, neppure la fisionomia del ragazzino mi era apparsa chiaramente. Sono dovuta passare attraverso questo sogno per tirar fuori Martin e la sua storia. Più vivevo, più il sogno acquisiva completezza; più costruivo la mia vita a New York, più Martin si raccontava. Sì, l’impegno. Senza impegno, che per me fa rima con sacrificio, non si arriva lontano, poco importa cosa si voglia fare nella vita».
Ma perché gli scacchi?
«Non lo sapevo neppure io, all’inizio. Poi ho capito, anzi, io e Martin abbiamo capito. Il gioco degli scacchi riflette la vita, l’idea che tutto sia in apparenza bianco e nero, che la vita somigli a una danza o una guerra sulla scacchiera, che occorrano strategia e cuore, che ci siano delle regole da rispettare ma che a volte, per riuscire, bisogna anche inventarsele. New York City stessa, se vogliamo, è una enorme scacchiera: devi imparare a giocare, a essere soldato, a dialogare con il re, a contrattare con l’alfiere. Devi affinare lo sguardo, stare in campana. In casa mia le scacchiere giravano, ma non ho mai preso sul serio gli scacchi. Ho iniziato a studiare un po’ quando mi sono misurata con la scrittura del romanzo».
Un romanzo molto “americano” anzi newyorkese e non solo per l’ambientazione. Come se New York stessa ti guidasse nel racconto. Ma quali sono stati i tuoi modelli?
«Potrei dire molti, ma scelgo “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith, “Molto forte incredibilmente vicino” di Jonathan Safran Foer e “Furore” di Steinbeck. Devo molto alla letteratura americana. Ha colmato una lacuna, mi ha fornito un punto di vista diverso, mi ha spinto in nuovi territori. Ha asciugato il mio stile, ha tagliato i rami secchi».
Al centro della storia, Martin, un piccolo talentuoso che è in fondo simbolo di tutti coloro che in America affrontano il “gioco” della vita e del futuro.
«Sì, Martin è simbolo di lotta. Gioca, certo, ma in realtà lotta e non per se stesso. Tutti i personaggi in qualche modo lottano, e anche in questo il romanzo è fedele allo spirito di New York City, in cui per sopravvivere bisogna lottare. Mama Jean lotta, Leah lotta, Joshua e i suoi fratelli lottano, Myriam e Theo lottano, ma nessuno è isolato: sono tralci di una stessa vite».
E c’è la lezione della strada, importante quanto l’osservanza delle regole.
«La strada e le regole sono due facce della stessa medaglia. Non puoi vivere in strada e accettare tutte le regole, perché alcune fanno letteralmente a pugni con la realtà, con la vita. Martin lo capisce in fretta e si adegua. Cresce in fretta, perché New York non ti aspetta: devi darti una mossa se vuoi cavartela, agguantare i tuoi sogni, diventare una volta per tutte ciò che sei destinato a essere».
Quanto è importante una storia come quella di Martin soprattutto per i giovani che immagino la leggeranno?
«Mi auguro che la storia di Martin faccia sentire meno soli, soprattutto i ragazzi. Tutti passiamo attraverso momenti difficili, ma c’è sempre una corda che ci tira su a patto di volerla afferrare. Non mi piace il verbo “salvare”: non c’è nessuno da salvare, dobbiamo soltanto tutti vivere, prendere confidenza con l’esistenza umana. Che quella corda sia rappresentata dagli scacchi, dai libri, da uno strumento musicale o da uno sport, importa meno di niente. L’unica cosa che conta è risalire ed essere disposti a correre il rischio di cadere. E se si cade, ci si deve riprovare, tutte le volte che è necessario. È questo, a mio avviso, che dovremmo insegnare ai nostri ragazzi».​

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