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L'ultimo libro di Giuseppina Torregrossa, un “noir casalingo” con toni da commedia

Se, aprendo le pagine di “Morte accidentale di un amministratore di condominio” (Marsilio), il più recente romanzo sgorgato dalla cornucopia narrativa di Giuseppina Torregrossa, ci si aspetta di incontrare Marò Pajno, la vicequestora che nei romanzi della scrittrice palermitana dirige il nucleo antifemminicidio a Palermo, se si pensa di ritrovare le atmosfere in chiaroscuro di una Sicilia viva e pulsante, narrata con generosità attraversando epoche diverse, saghe familiari e relazioni culinarie, si rimane “sorpresi” da questo romanzo (dai tanti rimandi letterari, a cominciare dal titolo) ambientato in un quartiere signorile di Roma (la scrittrice per il suo lavoro di ginecologa vive tra Roma e Palermo). Lì, nella Capitale, su un pianerottolo di un palazzo pretenzioso immerso nel verde, viene trovato il cadavere di Michele Noci, anziano e benestante amministratore di quel condominio in cui lui stesso risiede assieme alla moglie Mimosa.

Inizia così questa “commedia” nera che tra grottesco e tragicomico sdrammatizza il “giallo” mentre non tace il cinismo della realtà, un “noir casalingo” dedicato dalla Torregrossa «agli amministratori di condominio della mia vita (absit iniuria verbis)», e che conferma gli stilemi della sua cifra narrativa.

Ogni condominio, si sa, è un piccolo universo, ma questo di via Minimi, non lontana da via Fani (la Torregrossa ama giocare con i nomi e con i paradossi, e Minimi allude a via Massimi, presunta prigione di Aldo Moro), questo microcosmo abitato da anziani «magistrati, militari, alti papaveri abituati al comando», ha una peculiarità: è una comunità nella quale le anziane signore che si affacciano per curiosare prima dai balconi poi sulla tromba delle scale sono le vere protagoniste del caso. C'è la moglie “devota”, c'è la vedova “rassegnata”, c'è l'amante “focosa”, c'è la vecchia “strega”, c'è la “barbona” asociale, «un mucchio di vecchie matte con parenti importanti» incontrate la sera del 24 dicembre dall'umbratile ispettore Mario Fagioli, detto il Gladiatore, accomodato, a due anni dalla pensione, nella sonnacchiosa routine di «passacarte nel sottoscala del commissariato di viale delle Medaglie d'Oro, il più tranquillo della Capitale».

Un bel personaggio, Fagioli, celibe, solitario, lontano ormai dallo «sbirro nervoso e fumantino, che aveva affrontato il lavoro con il cipiglio del guerriero, tanto da portare a termine certi pericolosi arresti nella 'ndrangheta calabrese». Sta gustando una pizza, indigesta consolazione di una squallida vigilia di Natale, quando viene convocato dal commissario perché si rechi subito sul luogo dei fatti. Ma senza perdere tempo a indagare - così lo esorta il commissario - anzi invitato ad archiviare il caso come “morte accidentale”, come sembra.

Insomma, un'indagine scontata che interrompendo la routine cui Fagioli si è votato per il tempo che manca alla pensione, potrebbe persino «divertirlo», benché dentro di sé senta «che sta per pestare una merda». E il suo fiuto di sbirro e la sua ritrovata irruenza non lo ingannano perché, tra le incongruenze del portiere Sadu e le maliziose confidenze delle amabili signore, capisce che quell'incidente è un delitto.

Giuseppina Torregrossa sa raccontare bene il guazzabuglio di passioni, infelicità varie e violenza latente dell'umano, muovendosi tra le ombre che, a dispetto della luce, s'impongono in questa storia a tratti schizofrenica, in cui persino i profumi del cibo (funzionale alla trama in questa storia, e sempre presente nella scrittura della Torregrossa) si rivelano guasti, tra abbondanti e inquietanti porzioni di pizza e tiramisù. Il crimine, invece, in questo teatro delittuoso del quotidiano è lì, spalmato sulle vite delle persone messe in scena con un movimento serrato che coinvolge tutti gli abitanti del condominio, e tutti contagia, come un virus letale.

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