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C'era Ecuba, a Mariupol

In "prima persona" la regina vinta e resa schiava alza il suo lamento sulla vita spezzata del piccolo Astianatte, ucciso dagli invasori

Non doveva andare così. Non dovevano essere queste mani di vecchia a prepararti per il tuo ultimo viaggio. Avresti dovuto tu, piuttosto, deporre sulla mia tomba uno dei tuoi riccioli serici, come promettevi ridendo, mentre trepido immaginavi il futuro. Tu, piccolo principe rimasto troppo presto privo del regno, figlio bambino del mio giovane figlio, di quel padre di cui ti intimoriva il cimiero e il cui scudo ti fa ora da avello. Tu, strappato a forza dall’ala calda di Andromaca, e ora che torni la madre non è qui a respirarti, cercando un’ultima volta, tra le ferite, il profumo della tua pelle. Tu, ucciso perché Troia non rinasca, figlio di un padre morto perché Troia non cadesse, con i capelli rappresi di sangue come lo erano i suoi, quando Achille, ebbro di vittoria e di vendetta, lo trascinava col carro davanti alle mura: il capo nella polvere, i piedi aggiogati, il petto oltraggiato dai colpi, che i nemici si erano compiaciuti di infliggergli dopo ch’era ormai morto.

A nulla mi era valso piangere, a nulla implorare, mostrargli il seno avvizzito in cui riconoscesse la madre. Nulla poteva opporsi a ciò che allora parlava al suo cuore: la patria, l’onore, la gloria. Ettore, il più amato di tutti i miei figli. E tu, ora… Almeno fossi morto, come tuo padre, dopo aver goduto giovinezza, nozze e potere: forse me ne farei una ragione. Avresti domato i cavalli e guidato i compagni nelle battute di caccia, avresti incoronato il tuo capo levando le coppe durante i banchetti, e la notte ti saresti scaldato al tepore languido di una giovane sposa.

Poi, preso in carico il regno, avresti governato con saggezza il tuo popolo e allora anche a te nulla sarebbe stato più a cuore della città, neppure la vita: perché è caro a tutti vivere da uomini liberi, perché è onorevole che un re difenda il suo popolo, che custodisca a qualunque prezzo le leggi e i confini della sua terra. Ma non dovevi morire ora, non così presto, quando ancora ti stringevi a tua madre, nascondendoti nelle pieghe della sua veste.

Questa guerra, iniziata con il sacrificio di una ragazza – Ifigenia, gettata sull’altare come una capra, imbavagliata e spogliata del suo abito color zafferano (come può chiudere gli occhi Agamennone, senza che lo strale del suo sguardo implorante non gli trapassi il cuore?) – ,termina, ora, con la tua morte. L’uccisione di una ragazza greca ha permesso che Troia venisse attaccata; ora, suggella per sempre la fine della nostra città quella del suo più giovane figlio, perpetrata con freddo cinismo in un teatro di rovine fumanti.

Era giusta, canteranno i poeti dei Greci, la guerra di Troia; lo stesso Zeus l’aveva voluta perché Paride, rapendo Elena, aveva violato i diritti sacri dell’ospite. Ma anche i Greci, in Colchide, avevano rapito Medea, rifiutandosi di restituirla a suo padre e in compenso, per riprendersi Elena, hanno mosso una guerra e distrutto l’intero regno di Priamo. Elena, che non avrebbe seguito Paride se non avesse voluto, mentre ora tornerà in patria sulle navi di Menelao, che – gliel’ho letto negli occhi – l’ha già perdonata.

Qui, sull’altare della causa giusta, non restano che i corpi esanimi dei giovani d’Asia e di Grecia, e tutto intorno desolazione e rovina. Piccole, morbide mani: così simili a quelle del padre, di cui cerco l’impronta sull’impugnatura di questo suo scudo, mani che non si tenderanno più a cercare un abbraccio. Piccola bocca, che mai più si schiuderà al riso, né cederà all’ingenua ostentazione delle sfide tra bimbi: «Mio nonno Priamo è il sovrano di questa terra, un giorno sarò io il tuo re».

Piccole, ossute ginocchia che avrebbero dovuto sbucciarsi nei giochi infantili, e non lacerarsi nel precipitare dalle mura di Troia, che diventano cenere. Occhi che chiudo per l’ultima volta, mentre preparo il tuo corpo con quel che trovo del nostro antico splendore nella mia tenda di prigioniera, rendendoti quegli onori negati al mio cuore e al mio Ettore per interminabili giorni, finché Priamo non lo ha sottratto alla violenza di Achille, recandosi al campo dei Greci con un araldo e un carro pieno di doni.

I riti funebri con cui mi accomiato da te, unendo al mio l’addio di tua madre, straziata e lontana, schiava nel letto del figlio di chi le ha ucciso lo sposo. Perché è questo la guerra, piccolo mio: una storia di donne che muoiono vedove, di padri che piangono i figli, di deportazioni e di stupri, di corpi consegnati alla terra o abbandonati alle fiere e agli uccelli.

Ma in ciò, paradossalmente, noi, gli aggrediti, siamo più fortunati: i nostri morti ricevono l’abbraccio del suolo paterno, le mani delle loro donne ne compongono i corpi. Gli aggressori, invece, giacciono in terra straniera; alle loro madri, alle loro spose, non è dato di avvolgerli in pepli e libare vino e miele sul loro tumulo; a volte, in cambio del giovane fiorente che hanno salutato sull’uscio di casa, è loro restituito un mucchietto di cenere; altre volte, invece, neppure polvere su cui piangere, mentre ad alcune è persino negato sapere se chi attendono invano da mesi, da anni, sia morto davvero.

«Chi ha senno deve rifuggire dalla guerra», mi ha detto Cassandra prima che la perdessi per sempre, a bordo di una nave nemica. «Ma se uno giungesse a tanto, morire da eroi è una gloria per la città, morire da vili è infamante. I Troiani, morti per difendere la propria patria, hanno conseguito la gloria più bella; non piangere, mamma». Non piangere; la patria, la gloria… Ma può bastare questo a tollerare tanto dolore? C’è qualcosa che conta di fronte a un bambino che muore?

E non solo i duecentoventisei bambini morti finora nel conflitto in Ucraina, nel Donetsk, a Kiev, a Kharkiv, a Mariupol; non le decine di migliaia di bambini uccisi o mutilati nei conflitti di Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen, Rwanda, che hanno incendiato il mondo negli ultimi dieci anni, ma un solo bambino, il solo piccolo principe troiano a cui è stato ucciso il padre, portata via la madre e, alla fine, negato un futuro.

C’è qualcosa che ancora conta di fronte a un bambino a cui è stato tolto tutto, a un bambino che muore? Ecuba guarda i bagliori della città in fiamme, il suo passato che si è fatto già polvere; guarda il piccolo corpo che dorme per sempre dentro lo scudo, come fra le braccia del padre. Noi guardiamo con i suoi occhi le piccole vittime del nostro tempo, della nostra bufera. «L’alba è orribilmente bella e gli dèi ci hanno abbandonato».

*Professore associato
di Filologia classica
e Drammaturgia classica
Università di Messina

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