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“Il dio disarmato”, in quei 3 minuti in via Fani cambiò la nostra Storia

Andrea Pomella

Il nuovo libro di Andrea Pomella è un colpo al cuore del lettore, lo lascia senza fiato, innanzitutto perché lo obbliga a chiedersi cos’è di preciso quello che ha fra le mani e che sta leggendo con tanto trasporto: un romanzo, un reportage puntiglioso, un saggio sul tempo e sulla nostra percezione di esso, una raccolta di racconti che ruotano tutti – in modo quasi ossessivo – intorno allo stesso tema? Il libro si intitola “Il dio disarmato” (Einaudi) e in esso l’autore indaga, scava, ispeziona, in un modo che definire morboso e compulsivo non sarebbe inappropriato, i tre minuti di un attacco, quello compiuto in via Fani dalle Brigate Rosse la mattina del 16 marzo 1978, il giorno in cui fu sequestrato Aldo Moro.
In quei tre minuti – minuti che hanno segnato per sempre il nostro Paese – la Storia si ferma perché quello che «accade alle 9.02 del 16 marzo 1978 continua ad accadere. Accade però nel reame dell’incantesimo. (…) Perché dentro a un incantesimo il tempo non esiste allo stesso modo in cui lo intendiamo fuori dall’incantesimo». Ecco, come Alice di Carroll, anche noi lettori attraversiamo lo specchio della Storia e ci ritroviamo a percorrere l’incantesimo che ha predisposto per noi Pomella. I punti di vista del racconto sono diversi e molteplici, in tal modo l’autore scompone – come se cercasse una via d’uscita all’interno di un labirinto, come se stesse mettendo insieme i pezzi di un puzzle, in un «abbagliante quadro mobile» – il cuore stesso di quell’evento che riscrisse il futuro dell’Italia.
Pomella restituisce e dà voce a Moro, ai suoi familiari, ai brigatisti, agli uomini della scorta, ma non si tratta di fantasmi, di spettri che si muovono e si agitano ancora in una sorta di incubo, nei corridoi di un tenebroso castello della memoria, bensì di una «vertigine di figure la cui ombra tocca il nostro stesso presente». Ecco, proprio a quell’ombra, che dal passato si allunga fino ai nostri giorni, Andrea Pomella sa dare una voce commossa – che tuttavia non sfugge mai al suo controllo – una voce che, alla maniera di Perec, si rivela come «un tentativo di esaurire un luogo» che non appartiene solo alla nostra mente, ma anche alla nostra realtà di ieri e di oggi.
Per compiere un esercizio così spericolato, l’autore è costretto, capitolo dopo capitolo, a lavorare a grandi altezze e senza rete di protezione (secondo una celebre definizione di Cocteau), come un vero e proprio acrobata della letteratura, un trapezista della narrazione che cammina su un filo sospeso nel vuoto. E il lettore si ritrova come uno spettatore al circo con la bocca aperta e lo sguardo all’insù, aspettando pagina dopo pagina un’altra evoluzione, un triplo salto mortale, un volo non previsto.
Pomella ha la mano sicura di un chirurgo che senza esitazioni seziona la parte malata nel corpo di un paziente. E il paziente che subisce l’intervento di rimozione è il Paese in cui viviamo. Il sangue che sgorga dalla ferita ancora aperta siamo noi. In un certo qual modo “Il dio disarmato” non è solo un intervento a cuore aperto, ma anche l’unico modo per ricucire quella tragica serie di eventi passati al nostro presente.

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