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Avere tutto è un niente, il nuovo romanzo di Marco Missiroli

Un padre e un figlio, la balera e il tappeto verde, una Rimini impensabile d’inverno, la trama minuta e tenace delle vite

Raccontare attraverso tutto quello che non si racconta: come metteva il piede fuori dalle coperte, quel velo di sudore splendente sulla fronte, un’esitazione, un inciampo, il modo dei polpastrelli di reagire al contatto col mazzo di carte, quello stringersi spalla contro spalla per il freddo, per antica consuetudine.
Raccontare tutto quello che non si vede, quello che agli occhi del mondo nemmeno esiste, come Rimini d’inverno, come un ludopatico quando non gioca. Come un giardino nascosto e selvaggio, dove sono state raccolte grosse pietre, ciascuna con una rudimentale forma, forse un’anima: ecco la poiana, il cinghiale, la tartaruga.
I segreti minuscoli delle case, delle vite: la chiave nascosta nella scatola della maionese, sul ripiano alto del frigo, la fotografia di Scirea in Brescia-Juventus, certi colloqui avvenuti in perfetto silenzio, al buio.
Non si può parlare di “Avere tutto” di Marco Missiroli (Einaudi) senza pensare che è il “niente”, pezzetto per pezzetto, parola per parola, l’unica nostra approssimazione a quel “tutto”, ed è prezioso. Che solo la trama ostinata di cose da niente alla fine è la rete di protezione, o forse la guaina che dà la forma alla vita, all’anima (nemmeno fossimo pietre scheggiate, in forma d’uomo, di donna, di padre, di figlio, di madre, di amico).
Non si può parlarne (ma oggi alle 18 ci proveranno a Messina, alla Gilda dei narratori, l’autore e Francesco Musolino) a partire dalla copertina ingannevole: sembra un gioco grafico, quel blu profondo che t’inghiotte sopra un bianco sporco, e invece è una foto, dove solo le rarefazioni minime del colore, le piccole onde o strisce più scure – un niente – ti dicono che forse è la spiaggia quando non la vede nessuno, non la cammina nessuno, e il cielo può farsi spesso e ostile perché tanto la grancassa dell’estate tace, e l’industria delle vacanze ha smantellato baracconi e girandole.
Poi guardi quelle piccole onde impercettibili di sabbia, e la storia comincia a scorrere, a granelli. Ed entri dentro la casa di Nando Pagliarani, vedovo, ex proprietario del fallito bar America, uomo «di poco corpo» ma ballerino per passione, tradito dal tallone infingardo proprio nel passo decisivo, il passo della vita, il passo della vittoria nella gara di ballo più importante, in coppia con la sua Caterina. Nando che è malato e lo sa. In quella casa di Rimini è tornato per un poco, da una Milano feroce e irresistibile, il figlio Sandro, o Sandrino, o Muccio, pubblicitario di talento, contrattista universitario, con l’ossessione maledetta del gioco d’azzardo e la vita in bilico di chi vince e perde migliaia di euro ai tavoli “giusti”, dove le vite possono andare in frantumi senza che nemmeno si senta rumore di cocci.
E dov’è la vita? Nel mancare il passo decisivo o nel farlo? E cos’è, esattamente, vincere? Sostenere il bluff, “sentire” le carte e il flusso incandescente che scorre – adrenalina, picco emotivo, euforia – e rilanciare, oppure difendersi, chiudersi, sottrarsi?
Ci chiediamo, di pagina in pagina, cosa sia quel batticuore di «avere tutto», e quale sia «il punto di rottura» da dominare, la «stanchezza del mazzo» da percepire, da inseguire, da scongiurare, da desiderare. E se tutto stia in quel preciso momento, «quando le cose certe si arrendono alle cose possibili», e facciamo – come fossimo noi il giocatore sulla soglia, a un passo dal tavolo – un calcolo breve di risorse, conseguenze, traiettorie.
Le cose certe: Nando, i suoi gesti, i piatti cucinati con attenzione, la cura dell’orto che è solo una declinazione tra le altre della cura per l’esistente, per la vita; l’amore, quello tra Nando e Caterina, famiglia e coppia di ballerini (e la balera è come il tavolo verde: adrenalina e azzardo, calcolo ed estro, pochi millimetri che dividono un trionfo da un tonfo), quello tra Sandro e Giulia, dissipato e distrutto dalla ludopatia come tradimento, furto, inganno ai più cari (come sa chiunque abbia avuto un ludopatico in famiglia), quello, inaspettato, tra Sandro e Bibi; quello tra Sandro e i suoi amici più antichi; quello tra Sandro e Nando, l’amore diseguale e parzialmente impossibile tra uomini adulti quando uno è stato il bambino dell’altro, quel bambino che qua e là vediamo comparire, nel racconto dell’io narrante Sandro (ed è lui, lui solo, lui bambino della prima comunione, ad avere la fulminea sensazione – che mai più tornerà – che si possa davvero «avere tutto»).
Le cose possibili, come nella domanda-gioco che attraversa tutto il libro e tocca prima o poi a tutti i personaggi: «Dove vuoi essere con un milione di euro in più e 50, o 25, anni in meno?». E d’ogni risposta quello che vale è la verità in controluce, l’ombra che proietta.
Accumuliamo indizi su come sia possibile rispondere a quella domanda, seguendo Sandro in giro per la Rimini lunare e spoglia, l’altra Rimini invisibile, impensabile, o dentro la casa di Nando, la casa di scatole di fiammiferi, del pentolino del latte sul fuoco, delle carte da briscola nel cestino; seguendo Sandro nei flash back al tavolo da gioco (o in quella sua estensione che sono gli sportelli dei bancomat e delle banche, i cassetti o i portafogli degli altri, nel cerchio sempre più concentrico della rovina), indietro fino alla prima scommessa, alla prima volta al tavolo da poker, al diavolo e Lucignolo che l’aveva portato in quel mondo, il Bruni.
E sappiamo rispondere solo alla fine, nutriti e tormentati dalle punte aguzze di questa storia di nulla e di tutto, autunnale e piena di soffi freddi, anche se comincia a giugno, intagliata e scavata alla perfezione da una lingua nuda, essenziale, precisa come un taglio dai bordi netti che diventerà una cicatrice persino bella, con il dialetto – che qui è semplicemente la lingua delle cose, l’appartenenza che non si può discutere – che aguzza gli spigoli. Si può, avere tutto. Ma ci vogliono un sacco di niente.

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