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“Youthless”, storie negate raccontate a dieci mani

Un progetto che ha coinvolto cinque scrittori del noir italiano. L’odissea di giovani donne in fuga dagli aguzzini

“Youthless. Fiori di strada” è un romanzo interamente scritto da cinque autori, non un’antologia ma la creazione di una voce nuova, la summa di diverse sensibilità, narrato in terza persona per raccontare l’odissea di un gruppo di giovani donne in fuga attraverso l’Italia, partendo dal Veneto per raggiungere la Calabria, scappando dai propri aguzzini che indossano la divisa. Pubblicato da HarperCollins, è un progetto che coinvolge grandi nomi del mondo noir italiano ovvero Alessandra Acciai, Massimo Carlotto, Patrizia Rinaldi, Pasquale Ruju e Massimo Torre, per una disperata fuga alla ricerca della salvezza, narrando l’emergenza sociale di quelle migliaia di ragazze scomparse nel nulla, nel disinteresse generale.
«Il noir racconta le storie negate», afferma il maestro del noir mediterraneo Massimo Carlotto, protagonista con Patrizia Rinaldi (l’autrice della serie “Blanca” edita da E/O e divenuta una serie Netflix di successo) di questa intervista.

Com’è nata questa avventura autoriale?
Massimo Carlotto: «Il punto di forza è stata la differenza degli autori, la contaminazione possibile che emerge con forza dalla storia per narrare la fuga dell’innocente, un fenomeno reale, preoccupante e contemporaneo. Il noir racconta le storie negate, quelle che nessuno racconta, quelle che nessuno vuole ascoltare».

La scrittura a distanza è stata problematica?
MC: «Abbiamo individuato un metodo, persino brevettarlo. Tutto è diventato possibile nel momento in cui ci siamo concessi il permesso di mettere le mani nel lavoro altrui, e così il file del romanzo passava di mano in mano, creando davvero un sesto scrittore, somma e sottrazione di ciascuno di noi. Altrimenti non avrebbe funzionato».

Chi sono le protagoniste di Youthless?
MC: «Analizzando il mondo dei predatori a contatto con gli adolescenti, abbiamo visto che lungo la rotta balcanica c’è un susseguirsi di ragazzine che scompaiono ai confini e molto spesso i colpevoli indossano la divisa. L’aguzzina delle ragazze è la vicecommissario Giustina Rebellin, la classica poliziotta capace, perché più sono corrotti più portano risultati, ma trattasi di una psicopatica. Non si parla di traumi vissuti ma di una mente contorta in azione».

E chi sono le ragazze?
Patrizia Rinaldi: «Lea è una ragazza francese in fuga, Teresa scappa dalla propria famiglia di ’ndrangheta che le ha ucciso la madre. Anna e Claudia sono sorelle con una dinamica affettiva piuttosto complessa, nascondendo un segreto familiare atroce. Rachida è una giovane senegalese in cerca della madre, fuggendo in cerca di libertà. Infine, c’è Stella e la sua morte spingerà le altre cinque ragazze a fuggire, in suo nome».

Avete scelto di invertire il punto di vista, la fuga dal Nord verso il Sud, dal Veneto alla Calabria. Che Italia c’è in pagina?
PR «La Calabria è molto importante, l’approdo tanto atteso, con la certezza che sarà il passo prima della salvezza raggiungendo l’Africa, la terra madre. Proprio in Calabria, nelle ultime pagine, si acuiranno tutti i contrasti latenti, fra rivelazioni inattese e le mosse della criminalità organizzata. Il viaggio è cruciale perché attraversando l’Italia, le ragazze diventano una famiglia alternativa».

Raccontare un’Italia diversa quanto è importante?
MC «Invertire il punto di vista, dare voce al territorio, è proprio il compito del noir. C’è un’Italia che non capisce, incapace di occuparsi dei più deboli».

Nessuno di voi si è intestato un capitolo o un personaggio. Una scelta necessaria?
PR: «Assolutamente. E non sarebbe stato possibile farlo. Il punto di vista delle ragazze e lo sviluppo della trama è stata comune e proprio il fatto di non rendere riconoscibile il lavoro di ciascuno di noi, ha permesso che il romanzo a dieci mani funzionasse a dovere, con la massima cura al linguaggio».

Parliamo di lingua. Quale avete scelto?
MC: «Non quella classica del noir, fondendola con il romanzo di formazione. Ci sono momenti di scrittura che trascendono, sfuggendo ai canoni. Il noir deve rinnovarsi anche stilisticamente e contaminarsi, aumentandone necessariamente la complessità».

Rinaldi, cos’è per lei il noir?
PR: «Sono bastarda di formazione. Ho sempre scritto di Blanca ma anche di ragazzi, lavorando nei laboratori e nelle carceri. Il noir lo vedo come un genere in cui confluiscono altri linguaggi, non stereotipato. Le storie negate mi affascinano, così come i personaggi difettosi e l’eterogeneità sociale, i diversi vissuti delle ragazze, aprendo lo sguardo sulla società».

Entrambi avete progetti televisivi di grande successo. Cosa significa per la scrittura?
MC «Un discorso molto delicato. Il romanzo dev’essere tutelato con cura, una scrittura troppo visiva può non essere un pregio, sono sincero. Bisogna proteggere la lingua».

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