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"Mi limitavo ad amare te", con Rosella Postorino nella storia innescata dalla Storia

«Le vicende personali per me sono sempre intrecciate col destino d’un territorio, un’epoca. E la salvezza è orizzontale, non viene dall’alto»

Sarà sullo Stretto, domani e sabato, Rosella Postorino, la scrittrice reggina premio Campiello (nel 2018, con «Le assaggiatrici») il cui ultimo romanzo, «Mi limitavo ad amare te», appena uscito per Feltrinelli, è già amatissimo dai lettori ed è stato proposto per il prossimo Strega da Nicola Lagioia (ma sia chiaro che, al di là dei premi, è un libro destinato a restare).

Anche stavolta è una storia che nasce dentro una enorme tragedia collettiva, la guerra bosniaca. E comincia per i suoi personaggi – un gruppo di bambini e ragazzini, non tutti orfani ma tutti in qualche modo senza famiglia, tutti alle prese con separazioni, lacerazioni, abbandoni – dentro uno scenario bellico che, proprio oggi, alla ricorrenza del primo anno dell’invasione ucraina da parte della Russia, si mescola alle scene che vediamo tutti i giorni, come tragica anticipazione, come sempiterna ripetizione della violenza. Ma questo è solo l’innesco d’una chirurgica discesa nella condizione umana, in quella vita che è sempre – anche per i più fortunati di noi – strappo e sgomento, allontanamento necessario dalla madre, ricerca di senso e di salvezza, pure dove, o soprattutto dove, sembra che non ce ne sia.

Omar, Nada, Danilo in particolare, e i loro fratelli e sorelle, i loro compagni all’orfanotrofio di Sarajevo, i loro compagni di viaggio verso l’Italia, dove vengono mandati per mettersi in salvo, si trovano ad affrontare lo spaesamento dei profughi, che è il modo per raccontare – come sempre fa Postorino, con una lingua esatta eppure infinitamente evocativa – lo spaesamento dell’umano, le trame roventi di amore e ripulsa, di cura e conflitto che ci tengono assieme. Ne abbiamo parlato con lei, in attesa d’incontrarla a Reggio (domani, a Palazzo Corrado Alvaro, ore 17,30, nell’ambito del bel Festival del Mediterraneo di Ecolandia) e a Messina (sabato, Feltrinelli Point, ore 18, con Nadia Terranova che sarà in collegamento video).

Il nazismo, la guerra bosniaca: la scelta degli ambiti delle tue ultime due storie sembra la Storia, ma poi scopriamo che si tratta di studi sulla natura umana, sull’umano perenne, oltre la Storia. Ma cosa ti ha spinta, o cosa ti ha chiamato alla tragedia di Sarajevo, che davvero è una “guerra rimossa” dall’Europa, dalla nostra consapevolezza?
«Come sempre, ad attrarmi, è stata una storia particolare innescata però dalla Storia. Nel caso de “Le assaggiatrici”, era la condizione ambivalente di vittima e complice al contempo che leggevo nell’esperienza dell’ultima assaggiatrice di Hitler; in questo caso è il sacrificio che implica la perdita di tutto – il nido, l’intero mondo conosciuto, l’identità, persino la madre – dei bambini partiti verso l’Italia per salvarsi dalle bombe su Sarajevo. Mi interessano sempre i fenomeni sociali e le condizioni totalitarie – la mafia, il carcere, il Nazismo, la guerra – e il modo in cui si riverberano sulle vite private, sull’intimità stessa degli esseri umani. Nei miei romanzi, almeno fin dal secondo, le storie personali sono state sempre intrecciate con il destino di un territorio, di un’epoca. È a partire da questo radicamento spazio-temporale che io provo a intravedere la condizione umana universale, è da una collocazione fisica precisa che spio e inseguo la metafisica».

L’esistenza come strappo invece che l’esistenza come dono. Essere gettati nel mondo – e gli orfani, o meglio i senza famiglia, di cui parli lo sono più di ogni altro – come destino comune. La salvezza è difficile, ma è possibile?
«In questo mio romanzo la salvezza è orizzontale. Non viene dall’alto, da un adulto, da chi è preposto a proteggere. I bambini si salvano da soli, si salvano tra loro, si aggrappano l’uno all’altra e l’uno all’altro, ed è grazie a questo legame – in cui comunque non riescono a evitare il tradimento e l’abbandono, ma anche la cura – che trovano una forma di salvezza. In fondo, è ciò che accade agli esseri umani, che sono orfani di Dio: Dio è in esilio fin dalla creazione, come scrivo nel romanzo, e soprattutto manca di tenerezza. Il buco all’origine, ossia l’impossibilità di decifrare un disegno, l’assenza di senso esistenziale ha come unica possibilità di salvezza la fratellanza tra gli esseri umani, la solidarietà, la “social catena” di cui parlava Leopardi ne La ginestra – io la definisco addirittura la tenerezza per la condizione di ogni essere umano, per il dolore dell’altro così simile al nostro. Visto che non abbiamo scelto di nascere, tutto ciò che possiamo fare per dare senso all’esistenza è provare ridurre il dolore, l’ingiustizia, sulla terra».

Un mondo senza madri è un ossimoro, non si dà come possibile. Ma in fondo siamo chiamati tutti, prima o poi, a fare i conti con l’assenza, la scomparsa della madre. Il processo di individuazione stesso è l’allontanamento, per tappe, dal corpo materno. I tuoi personaggi sono esemplari di questo “taglio” necessario, con gradi diversi di dolore, di spaesamento. Ce n’è uno che hai amato di più?
«Ho amato Omar perché lui è così incapace di allontanarsi dalla madre, così incapace di venire al mondo, che non si concede mai nulla, neppure la possibilità di essere amato, neppure un desiderio: se per lui Nada lo è, il primo desiderio dopo sua madre, d’altra parte però lui non lo coltiva, come non ne avesse il diritto. Il suo estremismo sentimentale gli impedisce di compiere quel tradimento che è necessario per diventare adulti. Lui teme che, tradendo la memoria della madre, il suo amore assoluto per lei, perderà sé stesso, quasi fosse ancora dentro il ventre. Teme di perdere la propria identità. Ma proprio lui, così integralista e radicale, così attento a preservare la sua origine, perderà la propria lingua madre, e appunto anche sé stesso. La devozione di Omar per la madre somiglia alla mia di quando ero bambina. Poi invece sono diventata Danilo, per crescere. Ma come lui non ho mai espiato la colpa di quello strappo. Ho avuto la sua stessa determinazione al riscatto, ma anche lo stesso senso di esclusione da un nido che non mi appartiene più, perché ho cambiato lessico, riferimenti culturali, persino classe sociale. Infine ho amato Nada, che ha perdonato ogni madre, non soltanto la sua. Le è successo nel corpo – perché il corpo ci precede».

Il corpo dove tutto accade, nostra prima frontiera e confine, luogo degli scambi e dei tradimenti. “Il corpo docile” (Einaudi, 2013) s’intitolava uno dei suoi precedenti romanzi (tutti da rileggere, fidatevi): e il corpo docile e indocile, ferito o trionfante, generativo o inaridito, il corpo che ci rende bersagli del fuoco e oggetti del desiderio (a volte tra loro indistinguibili, nella scrittura di Postorino) è tutta l’anima che abbiamo.

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