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Giancarlo Cauteruccio: «Tutti noi artisti sulla spiaggia di Cutro»

Rilanciamo l’appello di un decano del teatro italiano. La chiamata per una performance collettiva, di calabresi e siciliani, a un mese dalla tragedia, per fare quello che l’arte fa da sempre: convertire il dolore in bellezza, in messaggio per chi verrà

«Immagina un grande raduno di artisti, tutti gli artisti – teatranti, attori, registi, musicisti, danzatori – lì sulla spiaggia di Steccato di Cutro, a un mese esatto dalla tragedia, a mettere insieme una grande performance che serva a non dimenticare». Lo dice, e lancia il suo appello da queste colonne a tutti i creativi e gli artisti calabresi e siciliani, un decano dello spettacolo, un Maestro della creatività, Giancarlo Cauteruccio, il fondatore, negli anni 80, del Teatro Studio Krypton, pioniere e sperimentatore di linguaggi e tecnologie, ritornato a vivere nella sua Calabria dopo quasi mezzo secolo di vita artistica in giro per il mondo, con epicentro in Toscana, ma intimamente mai diviso dalla sua origine, da quel Mediterraneo greco e multilingue, greco e multiforme che sente parte di sé. Oggi, come tutti, è ossessionato dal naufragio di Cutro, dalla sua umanissima straziante tragedia, e non può che fare quello che ha sempre fatto (che fa da sempre l’arte): cercare di trasformare il dolore in bellezza, il pianto per l’umanità uccisa in urlo, in esperienza di condivisione, in esempio per l’umanità che viene e che verrà. «Io da quando sono tornato in Calabria dopo 45 anni di vita e di creatività in Toscana – dice – ho sentito la necessità di tornare alla terra madre per restituire qualcosa della mia esperienza, e trasferirla alle nuove generazioni. Vivo in Calabria, e la osservo. Una delle cose che mi ha fortemente impressionato è proprio quello che sta avvenendo in questi giorni, perché ho sentito forte la solidarietà, questa profonda esperienza di accoglienza di una terra che è antica, e che ancora oggi continua a ripetersi, ed è segno di grande bellezza il fatto che questi ragazzi, queste persone abbiano rischiato anche la loro vita, per cercare di salvare qualcuno».
Sì, perché una delle cose che rendono, forse, questo naufragio diverso dai tanti, è anche questo granello di strazio collettivo, quest’emozione diffusa. «Questa cosa mi ho scosso – insiste Cauteruccio – , e ho pensato: ma perché la cultura di questa terra non deve lanciare una sua presenza per questa tragedia? Noi che abbiamo studiato e messo in scena le vicende di Enea, delle Troiane, perché non esprimiamo immediatamente qualcosa di forte?».
Noi che siamo nati da migranti giunti sulle nostre coste, noi che migranti siamo stati e continuiamo a essere, che accogliamo e veneriamo Madonne nere e santi arabi, noi che siamo greci antichi nel profilo, nei nomi, nelle idee.
«Sarebbe importante se gli attori, i registi, i musicisti, i danzatori – dice ancora – , si ritrovassero tutti a un mese dalla disgrazia sulla spiaggia di Cutro. E creassero insieme una grande performance che serva a non dimenticare. Sto chiamando amici e conoscenti, colleghi calabresi e non solo, da Scena Verticale a Teatro Rossosimona, voglio parlare con gli artisti, e diffondere e coinvolgere tutte le arti, anche la musica e la danza. Vorrei questo momento di creazione condivisione espressione con tutti gli artisti, il 26 marzo, a un mese dal naufragio».
Cauteruccio è fedele alla sua poetica di sempre, lo spettacolo che deve dialogare con la comunità, che deve suscitare, interrogare, aprire spazi di condivisione, di alleanza. E lui ha anche il titolo pronto, e la prima, grande intuizione: il resto verrebbe lì, nel corso di quella giornata che non sarebbe di celebrazione o di ricordo, ma di azione viva, di emozione collettiva, di rito condiviso. «Mi sono chiesto quale potrebbe essere il tema, l’idea: ho pensato subito a Pitagora, al numero pitagorico. Il numero che in questa vicenda è diventato protagonista, perché appena hanno portato i morti nel palazzetto dello sport sono venute fuori quelle sigle: due mi sono rimaste impresse, KR46M0 e KR14F9. Indicano due delle vittime: il neonato, la bambina di 9 anni, senza nome, solo una sigla, un numero. Ho pensato all’arithmòs di Pitagora, alla sua profonda indagine metafisica e misterica. Ho pensato alla contrapposizione tra bene e male, tra numero pari e dispari. I numeri della grande tradizione pitagorica calabrese, i numeri che reggono l’armonia e i numeri che si rivoltano contro la nostra indifferenza e insensibilità. I numeri spietati dell’algoritmo, i numeri che ci assediavano durante la pandemia. Il titolo sarebbe arithmòs, con le due sigle come sottotitolo».
Lui che con Pitagora e i suoi numeri esatti e mistici ha lavorato – perché non si smette mai di essere magnogreci calabresi, dovunque si vada. Lui che ha messo in scena il “Pitagora” di Marcello Walter Bruno, indimenticato docente dell’Unical, drammaturgo e creativo scomparso l’anno scorso. «Sì – ricorda – ho messo in scena il bellissimo “Pitagora” di Marcello Walter Bruno, debuttato a Mosca nel 1990». Dice «Mosca» e ci guardiamo di colpo, perché l’attualità s’incrocia, le tragedie del nostro tempo hanno modi misteriosi di annodarsi a quello che facciamo: eccoli, i numeri pitagorici. «Quando un artista si trova impigliato in queste coincidenze deve fare qualcosa», chiosa. Pitagora sarebbe d’accordo.
«Questa vicenda, stando qui – prosegue con fervore – , la sento viva, vivendo a Sibari, sono andato sul mare, ho guardato verso l’orizzonte, poi le montagne, ho capito perché i greci sono sbarcati lì, e anche a Crotone, e continuano a sbarcare generazioni di persone, generazioni umane che portano certamente civiltà, cultura, conoscenza, nuove identità. Questa cosa mi sta girando in testa da giorni, e vorrei riuscire a realizzarla. Spero di trovare i canali per contattare tutti e creare questo raduno dell’arte, perché possa gridare verso un avvenire che sicuramente si fonderà sull’incontro dei popoli, delle religioni, delle identità e delle culture».
A braccio, mi cita versi di Derek Walcott («Tempo verrà in cui, con esultanza, saluterai te stesso arrivato alla tua porta, nel tuo proprio specchio, e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro, e dirà: Siedi qui. Mangia. Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io»), versi di Pasolini (da «Alì dagli occhi azzurri», una vera profezia che lui evocò in scena con “Clan+destini”: «Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane. Subito i Calabresi diranno, come da malandrini a malandrini: “Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!”»), parla della Medea di Alvaro (anche quella messa in scena, “trapiantata” a Firenze, così come i suoi studi su Brunelleschi – perché l’architettura è come la parola, e l’armonia dei numeri regge entrambe – e diventati un docu visibile su RaiPlay, ora torneranno qui, perché l’arte è scambio fecondo). S’infervora sul suo nuovo progetto, «Nei borghi dell’avvenire» che vorrebbe rendere laboratorio diffuso, fuori alla centralità dei capoluoghi, ripartendo, dopo la pausa pandemica, dall’umano e dal rapporto tra l’umano e la natura, nella preziosa «incontaminazione della Calabria».
Ma i costi di questa performance?
«Si dovrebbe fare a costo zero: ciascuno arriva da sé. Vorrei iniziare di mattina, costruire in una giornata l’organizzazione di questo evento, che comincerebbe al pomeriggio. Una forma di autofinanziamento potremmo pensare, anche per un service che garantisca luce e suono».
E c’è un’altra cosa, che Cauteruccio vuole proporre a tutti noi, a chi volesse ascoltarlo: «Vorrei che tutti i reperti non venissero mandati al macero, ma conservati in un luogo affinché possano diventare attraverso l’opera di artisti una sorta di memoriale. Che diventi un urlo, una testimonianza materiale». Quegli oggetti fotografati e ripresi sulla spiaggia: i rottami, le scarpe, la tutina vuota, il biberon, le teste dei pupazzi. Una Spoon River degli oggetti – qualcosa del genere ha mostrato, venerdì scorso, nel suo accorato reportage, che come sempre scava dentro quello che tutti hanno già mostrato e ce lo mostra in forma nuova, Diego Bianchi a “Propaganda live”. La bellezza, la memoria: sono le fragili, potenti armi che abbiamo da millenni. Usiamole.

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