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Non è un Paese che può fare a meno di McCarthy

L’esplorazione dell’umano nei suoi “meridiani di sangue” ci mancherà moltissimo

Harold Bloom lo considerava il vero erede di Shakespeare e Melville – e non c’è davvero motivo di credere che il grande critico volesse esagerare – mentre David Foster Wallace nel saggio «Di carne e di nulla» parla del suo leggendario «Meridiano di sangue» del 1985 come di uno dei cinque romanzi americani della seconda metà del Novecento «spaventosamente sottovalutati», per poi concludere: «Inutile dirlo». Basterebbe il ricordo di questi due interventi per sottolineare come la morte di Cormac McCarthy – scomparso martedì a 89 anni – lasci un vuoto impossibile da colmare.

Forse non è un caso che l’autore di «Non è un paese per vecchi» ci abbia lasciato, quasi nonagenario, un’eredità rappresentata dai suoi due ultimi libri, un vero e proprio dittico, due romanzi che narrano più o meno la stessa storia colta da diverse angolazioni. Espediente stilistico non nuovo, certo, nella storia della letteratura, ma che Cormac McCarthy utilizza in modo da sorprendere sempre il lettore, anzi, aggiungendo, se possibile, perfino il punto di vista del lettore stesso al “completamento” dell’opera. Tale dittico di romanzi è composto da “Il passeggero” (appena uscito per Einaudi nella traduzione di Maurizia Balmelli) e “Stella Maris” che Einaudi pubblicherà in Italia a settembre.

Si sa che i veri protagonisti dei libri di McCarthy sono i dialoghi – e qui sta l’apporto del lettore, chiamato a capire principalmente, o semplicemente a comprendere la materia narrativa che nasce e si va formando sotto i suoi occhi – dialoghi che raccontano, che costruiscono, che raggiungono vette filosofiche inaspettate e sorprendenti (quasi à la manière di Voltaire), dialoghi come vera e propria struttura portante e storia, stilema, opportunità creativa e compositiva per l’autore stesso.

Bloom, che lo considerava uno dei quattro maggiori romanzieri americani del suo tempo, insieme a Philip Roth, Don DeLillo e Thomas Pynchon, amava definire «Meridiano di sangue» (1985) «il più grande singolo libro dai tempi di Mentre morivo di Faulkner». Ecco, ed è proprio Faulkner l’autore che viene in mente quando si leggono i dialoghi, quel discutere “vero”, quel parlare autentico dei personaggi di McCarthy. È come se lo scrittore sia parte integrante di quella gente che lui coglie di sorpresa quasi a chiacchierare anche di cose comuni, cose all’apparenza senza alcun peso specifico all’interno della trama. E invece è tutto vero.

Come veri sono il Male e la violenza – le grandi ossessioni di McCarthy – per affrontare il racconto dei quali egli fa crescere sulla pagine storie d’orrore fino a raggiungere “l’altezza epica”, l’aria rarefatta della vetta innevata del capolavoro. E forse è soprattutto quest’aspetto della sua narrativa – quello del Male e della violenza – che lo rende tanto vicino a Faulkner. Prendi “Il passeggero” – a cui insieme con “Stella Maris” McCarthy lavorava fin dagli Anni Ottanta. Ancora una volta McCarthy dà la parola ai reietti, agli ubriaconi, ai reduci, con una veridicità e una credibilità tali da farci credere che egli, l’autore, non abbia fatto altro che trascorrere tutta una vita accanto a loro.

Poi, il suo sguardo da scienziato che viviseziona l’animo umano si concentra su un fratello e una sorella (i due protagonisti). Entrambi geni con l’ambizione di una fuga perenne: «Verso un posto senza compagnia né legge né letteratura, dove non c’è altra realtà del ricordo e la fisica si fonde nella metafisica». Bobby Western fa il sommozzatore e, come in passato ha fatto anche la sorella Alicia, guarda «dove non doveva guardare». Solo che anche lui, come la sorella, trascorre la sua vita cercando di «contrapporre l’ordine della mente alla complessità del mondo» (Calvino).

Ogni romanzo di Cormac McCarthy è un romanzo totale che, nell’indicarti una strada, una via d’uscita, la nasconde dietro la maschera della bellezza, perché «la bellezza ha il potere di suscitare un dolore inaccessibile ad altre tragedie». Bobby Western si assume tutte le responsabilità al posto dell’autore, perché entrambi emarginati per scelta – come la sorella Alicia, del resto – appartengono a «un’eletta schiera», quelli che preferiscono «un mondo di carta» e che conoscono «un’altra verità».

Non è un caso che McCarthy vivesse nel suo eremo di Santa Fè, lontano da tutti, isolato dal mondo, senza e-mail, senza telefonino, senza tablet. Dunque è anche sua la domanda che un ispirato malvivente di New Orleans fa a un certo punto del romanzo a Western (ma la sta ponendo a tutti noi): «Albergherà, nei bambini futuri, una nostalgia di qualcosa che non sapranno nemmeno nominare?».

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