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«Il palco è la mia vita naturale». Umberto Orsini in scena a Tindari con "La ballata del carcere di Reading"

«La ballata del carcere di Reading», opera poetica di Oscar Wilde, è in programma domani sera nel Teatro greco di Tindari, in programma per il Festival diretto dall’attore e drammaturgo Tindaro Granata. Con la regia di Elio De Capitani, sarà in scena Umberto Orsini, accompagnato da Francesca Breschi che canterà le cinque ballate composte da Giovanna Marini. Di questo e di altro abbiamo parlato con Umberto Orsini, 89 anni portati con l’aria di un settantenne e con l’entusiasmo di un ventenne, dal timbro di voce inconfondibile, un attore che conferma come la “terapia” del teatro allunga felicemente la vita.
«La ballata del carcere di Reading» è poesia che si fa teatro. Come e perché?
«È uno spettacolo nato nel 2018 al Festival di Asti. Avevo sentito una parte di questo testo in una messinscena di Pippo Del Bono, “Urlo”, al quale avevo partecipato insieme con Giovanna Marini. Ne rimanemmo molto colpiti, tanto che lei ha scritto cinque ballate originali, che poi sono diventate la base musicale del nostro lavoro. Lei cantava il testo in inglese e io lo leggevo in italiano. Adesso a Tindari per la prima volta sarà sostituita da una sua allieva».
Un testo profondo, vero?
«Oscar Wilde lo ha scritto dopo un periodo trascorso in carcere e racconta di un altro detenuto, condannato a morte per aver ucciso la moglie. Wilde, oltre a non accettare la pena di morte, sviluppa un concetto filosofico-esistenziale: siamo tutti un po’ colpevoli di uccidere qualcosa che amiamo, siano essi ideali, ambizioni o altro. I versi diventano così un’importante riflessione sulla vita».
Stare sul palcoscenico alla sua età: passione, lavoro o necessità esistenziale?
«I teatri mi richiedono, quindi… Il palcoscenico fa parte della mia vita naturale. Ho fondato una compagnia mia che mi consente di scegliere e di non essere scelto, con la qualità come punto di partenza. E, grazie a Dio, sto bene. Dove c’è talento, non c’è vecchiaia, come dimostrano Harrison Ford e Clint Eastwood...».
Lei ha attraversato tutto il teatro italiano dei grandi registi: ora che non ci sono più De Lullo, Visconti, Strehler, Ronconi, Castri e altri, dove pensa stia andando il teatro?
«Ammetto che dopo questi grandi c’è stato un certo dilagare di impudicizia teatrale. Ma quelli bravi ci sono sempre. A parte Gabriele Lavia che continua con i suoi spettacoli, a me piace molto Massimo Popolizio, già attore ronconiano, che dal grande Luca ha ereditato la capacità di indagare testi e sottotesti, ma senza imitarlo. Preferisco lavorare con registi non autoreferenziali, con chi è o è stato anche attore e infatti ho affidato a Popolizio la regia de “I ragazzi irresistibili” di Neil Simon, dove nella prossima stagione reciterò ancora con Franco Branciaroli dopo il successo di “Per un sì o per un no”. Un testo comico, che però ha una sua profondità. E comunque non è vero che la gente va a teatro solo per ridere: ho fatto il tutto esaurito con “Copenaghen”, in cui si parlava di fisica quantistica».
Ha sempre amato dividere il palcoscenico senza timori e gelosie con attori bravi quanto lei. Se non ricordo male, una volta riconobbe la superiorità di Gian Maria Volontè.
«Con lui ho frequentato l’Accademia e abbiamo fatto un saggio insieme, “Nostra Dea” di Bontempelli. Lui era un anno avanti ed era molto più bravo di me. Capii che avevo davanti un campione, era come giocare a tennis con Federer o Nadal, con le loro palle veloci. Stranamente, poi ho avuto più successo io. Però ho capito che è importante stare sul palcoscenico con qualcuno con cui scambiare sempre palle veloci: la qualità dello spettacolo aumenta. Sono padrone del teatro che faccio, da impresario pago per fare teatro di spessore. Do agli altri quello che ho avuto».
Immagino la sua noia alle domande che si ripetono su Mina che lo ha respinto e sulle sue storie sentimentali con Rossella Falk ed Helen Kessler, invece io vorrei chiederle se adesso rimpiange il non aver messo su famiglia.
«Non sono pentito. Credo che non sia stata una scelta egoistica, anche se può sembrarlo. Fare l’attore significa godere di un stagione meravigliosa della vita. Ho tanti amici e sto bene anche da solo, non soffro di depressione e mi piace leggere, lavorare, approfondire, viaggiare».
La televisione dei famosi sceneggiati da lei interpretati, da “I grandi Camaleonti” a “I fratelli Karamazov” le diede una grande notorietà. Cosa pensa delle fiction di oggi? Ci lavorerebbe, serie comprese?
«In serie americane e inglesi sì, in quelle italiane no. Hanno sceneggiature stiracchiate e un metodo di lavoro che definirei di finto cinema. Rifiuto molte proposte, oppure chiedo compensi fuori mercato, così non se ne fa nulla. Piuttosto preferisco lavorare gratis per un amico, come è accaduto per un piccolo ruolo in “Pasolini: un delitto italiano” di Marco Tullio Giordana. A novembre girerò un film americano, “Trifole” (tartufi in piemontese), diretto da Gabriele Fabbro, un italiano che risiede negli Usa, che ha una sceneggiatura intelligente. Ma quando vengono a propormi i ruoli di nonno, li mando a quel paese. Non sopporto gli stereotipi».

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