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Beatrice Monroy e la necessità assoluta delle “storie crudeli”

Una scrittura crudele, così Beatrice Monroyscrittrice e drammaturga palermitana, in primissima linea sulle questioni delle donne, e delle donne del Sud – definisce quella di «Notte, giorno, notte» (Giulio Perrone editore), perché certe storie, quando vai a risvegliarle, sanno essere crudeli. Questa, dedicata «alle madri e alle figlie di Palermo», comincia piano, come una nenia sonnolenta della voce narrante di Matilde che cerca di scrollarsi il peso del caldo feroce che impregna Palermo in una notte di luglio del 1993.
Vagano opachi e molli, i pensieri di Matilde che esce sul terrazzo di casa e si siede sulla «vecchia sedia a dondolo che fa tric trac» per un po’ di refrigerio, mentre, dentro, suo marito Federico e il loro bambino dormono tranquilli. Non si vedono stelle, solo la luce artificiale della città rossastra per l’afa, dal palazzo dove abita, in una foresta di cemento, sorta nel dopoguerra, quando, istituita la Regione a Statuto Autonomo, decine di famiglie si trasferirono per un impiego regionale ricevuto per chiamata diretta nei nuovi complessi costruiti in fretta, lontani dal centro storico. Le mogli degli “impostati”, come venivano chiamati quelli chiamati alla Regione e “formati” in fretta e furia, dapprima furono frastornate «da quel labirinto incomprensibile in cui erano finite», poi si abituarono alle “regole” della quotidianità; accettarono tutto, per permettere alle figlie quel salto sociale che a loro non era stato concesso. Si era diventate cittadine e andava bene, chiudendo un po’ gli occhi. Se poi qualcuno restava ucciso per strada, per qualche sgarro fatto a «chi contava», come era successo al padre della sua amica Carla, testimone da bambina di quella tragedia, meglio essere «custodi del silenzio», pensare ad altro.

Così dicevano le madri, per paura e quieto vivere. E Matilde che è stata sempre tranquilla, obbedisce, mentre Carla è ribelle, un po’ isterica, è sempre stata un’originale, con quell’idea di salvare il mondo, di combattere le iniquità, di voler capire e scoprire chi ha ucciso suo padre. Gli anni passano, Matilde si sposa, ha una vita da casalinga con gli agi permessi dal marito ingegnere affermatosi nel campo dell’edilizia, e anche Carla ha suo marito Roberto, insegnante come lei. Abitano vicine come quando erano bambine, i loro appartamenti sono contigui, perciò è facile ascoltare quello che dicono quando le notti sono così insonni. E sì, ascolta Matilde, la mente di notte insegue brandelli di vita e lacerti di passato e presente, ma poi torna il giorno con le sue quotidianità, la menzogna come stile di vita, e riprende il cammino dell’oblio: di inganno in inganno, di perdita in perdita.

Però la notte torna implacabile, misteriosa, e quel dormiveglia sul dondolo intercetta le voci di Carla e di Roberto; voci agitate, dolenti, frasi scomposte di intrighi, violenze, omicidi di quei cruenti anni 90 vissuti da Matilde, cresciuta nel silenzio, con il distacco di chi non vuole vedere. Perciò ha poi schivato Carla, così testarda nel voler capire invece di dimenticare.
Ma ecco, è giorno e poi ancora notte e quando Carla racconta, Matilde, anche se sente «che lei è me e che io sono lei», vorrebbe rimanere fedele al sonno della ragione; del resto, ha un marito affermato, che ha costruito la sua serenità, l’importante è restare tranquilla, arrivare alla sera e al ritorno a casa del marito «riavere un posto nel mondo». Già, la sera, e la notte, quando non ce la fa a dormire, è il caldo sì, ma anche altro, e vede come tutto sia partito da un inganno, anche se in fondo che male c’è ad avere una vita smemorata, rimane la vita giorno dopo giorno.
«Così ha inizio il male», avrebbe scritto Javier Marías citando Shakespeare.

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