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L'addio a Botero, l’irrealismo magico e la scoperta del dolore

Morto a 91 anni il pittore colombiano che aveva una passione per l’Italia

Il pittore Fernando Botero aveva trasformato il mondo: non dipingeva figure grasse (sì, vi rassicuro: in questo contesto si può scrivere e persino pronunciare, questa parola divenuta, per ragioni comunque serissime, imbarazzante e scomoda), ma figure luminose, con una speciale, espansa levità, una presenza carnale ma immateriale. Un’arte nutrita di accademia, di studio e osservazione del corpo nella grande pittura, dal corpo-tempio del Rinascimento al corpo-urlo del Cubismo. Per approdare a una specie di favola collettiva, di sovrappeso magico (ah, questi colombiani, cosa hanno fatto alla nostra immaginazione, nel Novecento!).
Sono così luminosi, felici e immateriali i cicli infiniti di ballerini: tangueri di cui si coglie esattamente il vortice di movimento e il potere trasformativo, ma anche il contenuto sociale, del ballo; ballerine classiche che sulle punte sono autentiche piume. E dopo famiglie, ballerine e coppie, dopo aver inventato quel suo “irrealismo magico” – tutto campiture di colore e volumi espansi e gentili – Botero s'è spinto fino a raffigurare il tormento della Via Crucis, la tortura nel carcere di Abu Ghraib: il corpo non più prodigio dell'immateriale, ma Mistero che si fa carne e sangue, o bersaglio del Male che lacera, che ferisce, che insanguina.
Aveva vissuto per un pezzo in Italia: nel nostro Paese le sue opere sono sempre state straordinariamente amate e comprese, anche dal pubblico più “ingenuo” (e questo per qualcuno era una colpa...). Adiós Fernando, chissà come volano leggeri, i tuoi angeli meravigliosamente grassi.

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