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I Malarazza di Barbàra, tra storia e invenzione

I momenti che ispirano un libro a volte contengono qualcosa di indecifrabile oppure di consapevole, magari riposto nello scrigno della memoria. E Ugo Barbàra, giornalista palermitano (già caporedattore centrale dell’Agi), scrittore (ha al suo attivo sei romanzi), e drammaturgo, il suo bel romanzo d’invenzione e di storia, “I Malarazza” (Rizzoli), che sarà presentato oggi alle 18 al Mondadori Ciofalo Bookstore di Messina, lo ha “pensato” quando nel 1994 a New York, ospite di una famiglia di origini italiane e precisamente di Castellammare del Golfo, luogo d’origine dell’autore per parte materna, ascoltava le storie sui loro avi immigrati.

Così nacque l’idea di scrivere «non la storia della povera gente partita in massa per la Merica ma di chi negli anni ’60 dell’Ottocento, dopo aver viaggiato tra gli agi di solide navi, imprenditori, patrioti esuli, proprietari terrieri si recavano in America con una visione di futuro. Gli stessi italiani che fecero grande quel Paese con il loro lavoro e le loro iniziative. La famiglia che mi ospitava è stata una specie di Forrest Gump dell’epoca, testimone di eventi importanti, con relazioni sociali di altissimo livello. Volevo inoltre liberarmi dall’assioma italo-criminale, e si sa che da Castellammare tante “famiglie” di boss mafiosi trasferirono in America la loro rete di potere. Ho cominciato le mie ricerche proprio a New York, tra archivi e musei, e sono venuto a conoscenza di storie incredibili».

Il romanzo, che con il suo intreccio di storia e finzione, grande storia e microstorie, restituisce il respiro delle generazioni e delle epoche insieme alle situazioni sociali e di costume, inizia nel 1860 da Castellammare del Golfo e dal suo territorio, cui Barbàra ha dato dignità letteraria, ma l’autore, che ha in programma una trilogia, fa precedere alla narrazione uno spiazzante prologo, con un personaggio innominato (il nome sarà noto nell’epilogo) che da Long Island nel 1990 accenna all’omicidio di sua madre avvenuto per mano del padre, senza dare altre spiegazioni.

«Questo è il bandolo della matassa- dice Barbàra- dopo il quale sono andato a ritroso ricostruendo al contrario tutta la storia». Che è quella di una famiglia di proprietari terrieri, i Montalto, in una Castellammare ancora arcaica, latifondista, dove «non è che mancassero i morti ammazzati» tra masse oppresse dalla miseria e gente selvatica e malacarne e tra filoborbonici e antiborbonici. Quando arrivano i garibaldini con venti di cambiamento molti li temono per la preoccupazione di perdere le terre e la diffidenza verso gli “italiani” e i Savoia, ma non Antonio Montalto, certo che in una Sicilia immobile non si può continuare ad aspettare il futuro. Così, in cambio di alcune sue terre compra un brigantino (storia vera, questa, tra le altre, dice Barbàra) con il quale sogna di far viaggiare i prodotti delle sue terre oltre la Sicilia.

Un personaggio sfaccettato, Montalto, un folle visionario, secondo la pragmatica moglie Rosaria Battaglia, che decide di trasferirsi con tutta la sua famiglia a New York, un emporio inesauribile di cose, di esseri umani, di affari. Ma pure lì, tra grandi contraddizioni, la Storia irrompe con personaggi storici come, tra gli altri, Lincoln, Cleburne, il marchese Palma di Cesnola e gli accesi dibattiti tra Unionisti e Confederati, tra schiavisti e abolizionisti, fino alla guerra di Secessione. Dove poi conduca l’ambizione e chi siano i Malarazza si capirà nel resto della trilogia.

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