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Calvino come... Colapesce. La gioia di “tuffarsi” in un mare di narrazioni con la guida del palermitano Pitrè

Nel 1954 Giuseppe Cocchiara - etno-antropologo di Mistretta - propone all’Einaudi di realizzare una raccolta delle migliori fiabe italiane provenienti dalle diverse regioni italiane. La genesi delle «Fiabe italiane» dello scrittore genovese, di cui oggi ricorre il centenario della nascita

Nel 1954 Giuseppe Cocchiara propone all’Einaudi di realizzare una raccolta delle migliori fiabe italiane provenienti dalle diverse regioni italiane. La casa editrice – per la quale l’etno-antropologo di Mistretta aveva pubblicato più di uno scritto ed era stato ispiratore dei Classici della fiaba – accoglie la proposta e gira l’incarico a un giovane suo collaboratore, Italo Calvino. Calvino – di cui oggi ricorre il centenario della nascita – è uno scrittore ai primi passi, da qualche tempo nell’entourage dell’Einaudi di cui l’anno dopo diventerà dirigente, nel 1947 ha esordito con «Il sentiero dei nidi di ragno», un romanzo di gusto neo-realistico con allo sfondo la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza a cui fa seguito, nel 1949, la raccolta di racconti «Ultimo viene il corvo» e, soprattutto, il lungo racconto «Il visconte dimezzato».

Soprattutto, perché «Il visconte dimezzato», pubblicato l’anno stesso in cui Calvino avvia il suo studio sulle fiabe, inaugura il ciclo de «I nostri antenati», la trilogia che ne decreta l’affermazione e ne sancisce la maturazione estetica contrassegnata dall’attrazione per il fantastico e il favolistico da Cesare Pavese già colta nel suo primo romanzo: «L’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, diversa» (L’Unità, 26 ottobre 1947).

Calvino stima tantissimo Cocchiara, ne ammira il rigore scientifico, la passione per la ricerca, il «dono di trasmettere agli altri il piacere di fare», e, consapevole della difficoltà del lavoro che l’attende – accentuata dal non avere avuto l’Italia i suoi Grimm o il suo Afanasjev – , intraprende con lui una fitta corrispondenza. Nel novembre del 1954 scende in Sicilia e riceve dallo studioso siciliano una cospicua documentazione proveniente in gran parte dal Fondo Pitrè, che definirà un «cospicuo bottino». È cosi che Calvino, per il tramite e la mediazione di Cocchiara, conosce Giuseppe Pitrè, per il quale nutre un’immediata predilezione: tra coloro che, nell’Ottocento in Italia, si sono occupati della ricerca di fiabe popolari, il folklorista palermitano è ai suoi occhi chi l’ha fatto con maggiore perizia e scrupolo scientifico. Tanto che delle duecento fiabe che vengono trascritte e tradotte dal loro dialetto in «Fiabe italiane», dato alle stampe nel 1956 (e appena ripubblicate nella collana Oscar Mondadori Baobab), la parte del leone la fanno quelle siciliane: ben 44 di cui 41 raccolte dal Pitrè.

Lo scrittore cubano ma genovese d’adozione ritiene «Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani» di Pitrè «il libro di uno scienziato». D’altra parte Calvino è un letterato cresciuto in una famiglia di scienziati (il padre agronomo, la madre naturalista), a suo modo un “illuminista” e nella sua narrativa l’osservazione scientifica e l’ «esattezza» (cui dedicherà una delle sue, incompiute, «Lezioni americane») occupano un posto di rilievo. Anche questo spiega la sua simpatia per il medico palermitano appassionato di demologia.

E che il suo interesse per Pitrè non sia passeggero lo dimostra quando nel saggio «La tradizione popolare nelle fiabe» del 1973 Calvino annovera tra «i maggiori monumenti della narrativa popolare italiana» «Peppi, spersu pi lu munnu», una novella che fa parte di quella che lui chiamava «galassia Pitrè».

L’approccio di Calvino con lo sterminato e suggestivo mondo delle fiabe non è facile: da un canto cerca di catalogare e dare una sistemazione organica al vasto materiale di cui dispone, dall’altro si lascia distrarre dal desiderio di abbandono, da lettore e da scrittore, al loro gusto affabulatorio. Nel maggio del 1955 scrive alla sua guida Cocchiara esponendogli il metodo che tenta di applicare: «Di ogni fiaba che leggo, segno un rapido appunto; poi lo classifico in base a tipi numerati che mi sono fissato da me secondo le necessità mie e che man mano aumento a ogni tipo di incontro. Ogni tipo ha la sua scheda su cui segno il titolo della fiaba; quando tra poco comincerò la stesura, d’ogni tipo o sottotipo prenderò la variante migliore eventualmente integrandola con altre». Il suo è un metodo «scientifico a metà» che non si discosta molto da quello dei fratelli Grimm: passa al setaccio la materia prima – le tante fiabe raccolte un secolo prima – ma poi la sbozza e seleziona per infine scegliere le versioni, tra le tante, più accattivanti.

Con le fiabe popolari Calvino si diverte: gioca con le loro varianti, in alcune trova un riscontro in specifiche opere letterarie, come nel «Diavolozoppo» che rinvia al «Belfagor» di Niccolò Machiavelli, sperimenta il gusto della letteratura combinatoria cui si accosterà nel suo ultimo periodo creativo dopo aver aderito in Francia al gruppo dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle).

Se per Leonardo Sciascia il personaggio del fantastico mondo popolare siciliano più affascinante è Giufà, per Calvino è Colapesce (al quale nel 2016 Donzelli ha dedicato un volume tratto dal Pitrè, con bellissime illustrazioni di Fabian Negrin). Col quale addirittura s’identifica nel suo tuffarsi nel mare magnum delle fiabe: «Era per me – e me ne rendevo ben conto – un salto a freddo, come tuffarmi da un trampolino in un mare in cui da un secolo e mezzo si spinge solo gente che v’è attratta non dal piacere sportivo di nuotare tra onde insolite, ma da un richiamo del sangue, quasi per salvare qualcosa che s’agita là in fondo e se no perdercisi senza più tornare a riva, come il Cola Pesce della leggenda».
Un’immersione salutare per Calvino grazie alla quale – e al suo novello Virgilio Cocchiara – gli si svelerà il percorso da intraprendere per raggiungere i più alti livelli estetici: quello del fantastico e del gioco tra razionalismo e leggerezza.

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