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Se una notte d’inverno un cronista... Una sorprendente raccolta di racconti scritta a "Ottomani sullo Stretto"

Quattro giornalisti (della Gazzetta), per otto narrazioni che sono altrettante riflessioni sul potere della scrittura di svelare e trasfigurare la realtà

Ci sono storie che sanno aspettare chi le racconta. Aspettano di uscire con i loro personaggi e i loro colori dalla sospensione in cui galleggiano per riposare, poi, sulla carta (anch’essa sa aspettare). Ne è testimone un libro delizioso sin dal titolo, «Ottomani sullo Stretto. Nulla è come sembra» (Città del Sole Edizioni), sin dalla copertina (da un disegno originale di Domenico Loddo alias Bafometto) e dal paratesto, sin dal nome della collana che lo ospita, “La bottega dell’inutile”. Inutile e necessario come tutto ciò che contengono i libri in cui quel patto tra gli umani che è la parola ci spinge ad aprirle quelle pagine che hanno saputo aspettare.

È un esercizio di libertà scrivere così come leggere, ed è questa, tra le altre, la ragione dello scrivere condiviso da quattro scrittori, quattro giornalisti professionisti che con le parole hanno sempre stretto un patto di narrazione, e che, come avverte l’Anonima che firma l’introduzione, hanno «deciso di rivelare i loro taccuini segreti attraverso dei racconti che navigano tra realtà e fantasia»: sono Vinicio Leonetti, Aldo Mantineo, Davide Marchetta e Marcello Mento, il primo di Catanzaro, il secondo di Siracusa, il terzo e il quarto di Messina, quattro teste e otto... mani «che hanno iniziato, in redazione, con le Lettera 22 per finire, dopo diversi step, nel magico mondo di Xpress».

Le storie sono tutte abitabili e soprattutto possono viaggiare insieme; e quel buon viaggio che l’Anonima augura a tutti, sia a chi scrive che a chi legge (le storie sanno aspettare chi legge) è un viaggio nella memoria, nelle memorie che affiorano da quei taccuini, con un messaggio-monito, perché, osserva l’Anonima, «nella testa di ognuno succede quello che sostiene Cicerone: “La memoria è custode di tutte le cose” e conoscere il passato ci permette di vivere il presente con più consapevolezza».

La scrittura, dunque, come territorio comune, come zona franca in cui tutto ciò che si può immaginare – e ricordare – è reale, perché quando si racconta tutto può accadere o potrebbe essere accaduto e anche la finzione sembra reale o, al contrario, anche il reale sembra un’opera di finzione. Appunto, nulla è come sembra.

Punto di forza di questo libro è la narrazione dinamica, la varietà delle storie, lievi anche quando raccontano cose gravose, che sembrano danzare da una voce all’altra: ed è bello che la scrittura si muova tra madeleine proustiane e fantasie alla Robbe-Grillet, tra materia umana varia e variamente drammatica e mitologie personali. Perché troviamo di tutto nella nostra memoria, pure impressioni di ricordi, e come ci ha insegnato Proust essa «è una specie di farmacia, di laboratorio dove si mettono le mani a caso, ora su una droga calmante, ora su un veleno pericoloso».

Dunque, nel laboratorio degli «Ottomani» ha preso forma questo “patchwork” letterario il cui merito va ad Aldo Mantineo: un’idea subito condivisa dagli altri tre con i quali il giornalista ha in comune il lavoro di anni e anni fra le scrivanie e le pagine della Gazzetta del Sud, esperienze di collaborazione con testate nazionali e l’amore per la scrittura, in forma di racconti e saggi, di romanzi e raccolte poetiche: un’attitudine alla quale tutti e quattro ora possono dedicarsi a tempo pieno. Anche le parole, come ha scritto qualcuno, prendono le loro abitudini e nei due racconti di ognuno degli autori distribuiti alternativamente si avverte la specificità della penna di ciascuno. Così, Leonetti che firma «L’amante del boss» e «Missione americana» fa germogliare i semi del racconto su due storie che spaziando nel tempo dialogano tra loro perché i protagonisti principali danno una possibilità all’impossibile aggirando destini di vita apparentemente e pesantemente già segnati e prendono la speranza di fare qualcosa di buono dovunque la trovano, anche nella realtà della ‘ndrangheta. Perché la vita si difende sempre.
Combina minimalismo radicato nella quotidianità e analisi socioantropologica su come la finzione che adombra la realtà abbia più presa se guardata dal piccolo schermo o attraverso i social Aldo Mantineo in «La paura di Michele» e «Il Capitano Zani» (da questo racconto, omaggio al capitano della Guardia Costiera Natale De Grazia per la sua indagine negli anni ’90 sulla “nave dei veleni”, l’autore ha tratto la riduzione col titolo «Zani» con la quale ha vinto il Premio Rhegium Julii 2019 sezione racconti inediti): due racconti di fatti concreti che tra memoria e fantasia giocano sullo svelamento finale di un piccolo mistero intuibile sin dall’incipit. È proprio vero che la memoria non si ferma mai.
Si sente il gusto dolceamaro della malinconia (anch’essa creatura del mondo misterioso dei ricordi) nei due racconti di Marcello Mento: con «Tre giorni lunghi una vita» l’io che scrive e ricorda torna nel favoloso tempo della fanciullezza, con la consapevolezza che quel mondo resta perduto per sempre, eppure saldo nella stanza della memoria come ben rivela l’incipit: «Quei giorni li avremmo ricordati per sempre». E in «Micio Pinto, l’uomo che visse tre volte», con un’operazione memoriale che si immerge in un passato collettivo, si racconta una storia antica della provincia jonico-peloritana tra Santa Teresa, Antillo, valle dell’Agrò e Sant’Alessio Siculo. Una storia da libro Cuore con le giravolte del destino di un personaggio singolare, Domenico, “Micio”, Pinto.
Spia dal buco della serratura o da dietro le doghe di una persiana, la contronarrazionedi Davide Marchetta, con due racconti metanarrativi in cui l’io narrante è sé stesso nella finzione narrativa ma anche qualcos’altro. E quel «mi ricordo» incipitario del primo racconto «Ragazzi dopo la scuola alle Tuileries» (un titolo “fotografico” da pittura impressionista), la dice tutta sulla sostanza della memoria che qui è una struttura artificiosa mirata a dilatare la riflessione sul senso stesso dello scrivere, sulla condizione da equilibrista di chi «entra nel mondo delle parole e non ne esce più». «Ciò che riesci a raccontare diventa sempre ciò che vivi» conclude l’io narrante del secondo racconto, «La banda dei giornalisti», dove il potere della parola inventa un luogo fascinoso e pericoloso di azione, riservato solo a chi sa – come colui che scrive – che appena le cose si raccontano avviene che si trasformino in fatti.

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