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A Milano in mostra l’altro Van Gogh, quello degli ultimi

Non il folle autodidatta che seguiva personali visioni ma il pittore colto, avido lettore, interessato a rappresentare una realtà che lo colpiva

C’è qualcosa che si ripete nelle mostre dedicate a Vincent Van Gogh (1853 – 1890): la sorpresa (che ovviamente tale non è, piuttosto il riaprirsi di una finestra di memoria visiva) per la grande emozione che suscitano le prime opere del pittore olandese, quelle in cui tonalità scure circondano e compenetrano personaggi delle campagne e delle città più povere, quando l’iniziale stile incerto già si trasforma e si fa interprete della fatica, del dolore e della vita rurale e operaia. Sorpresa che poi regolarmente rallenta e quasi svanisce quando il personalissimo cromatismo e il segno che trasmuta la realtà – pur mantenendola nella sua evidente fisicità – dei grandi capolavori poi dipinti in Francia, ci fanno lasciare in secondo piano tutto il resto, per quanto ci avesse tanto interessato. La mostra «Vincent Van Gogh. Pittore colto», allestita al Mudec di Milano fino al 28 gennaio, sembra bloccare questo fenomeno di “non memoria” perché stavolta i “due Van Gogh” convivono alla pari nel nostro immaginario del dopo visita.

È un fenomeno particolare perché non è questo il fine principale dell’originale percorso espositivo, ma ne diventa una diretta conseguenza. Andiamo con ordine. La mostra, curata da Francesco Poli con Mariella Guazzoni e Aurora Canepari, è prodotta da 24 Ore Cultura – Gruppo 24 Ore, promossa dal Comune di Milano-Cultura, è resa possibile grazie alla collaborazione con il Museo Röller-Müller di Otterlo, che possiede la più grande collezione di dipinti e disegni del pittore olandese, seconda solo a quella del Van Gogh Museum di Amsterdam, e consente di ammirare anche opere meno note. Il suo scopo, dichiarato chiaramente dal titolo, è quello di uscire dagli stereotipi della pazzia, dell’artista autodidatta e solitario, per ristabilire una verità poco indagata: Van Gogh era anche un intellettuale molto colto.

Come spiega Poli, si vuole «mettere a fuoco la ricchezza e le profondità degli interessi culturali che stanno alla base della visione della vita e dell’arte di Van Gogh», sviluppando due temi: il grande e costante interesse per i libri e la fascinazione per il Giappone. Ecco perché tutte le opere in mostra, con un percorso cronologico e tematico, sono allestite in costante dialogo con i libri, di cui l’artista stesso scrive nelle sue numerose lettere. Cosa succede, tornando al nostro inizio? Che la motivazione letteraria che porta Van Gogh a credere nella necessità di dipingere la realtà alla stessa maniera in cui gli autori la raccontavano – Zola, per esempio, ma ancor prima Harriet Beecher Stowe («La capanna dello zio Tom»), Dickens e Shakespeare – con il sentimento della compassione autentica (sviluppata nel periodo in cui era stato un predicatore), tempra l’attenzione che le opere dedicate alle persone più umili suscitano, lasciando una scia dentro di noi anche quando «Pini al tramonto» o «Covone sotto un cielo nuvoloso» ci portano verso quell’unione cielo-terra che, sia pure in misure diverse, fa parte della nostra anima, in qualunque modo essa si intenda.

Tra queste opere dai toni acoloristici, a parte «I mangiatori di patate», considerato già un capolavoro precoce rispetto alla grande stagione del suo speciale uso delle cromie, o anche la più nota «Donna sul letto di morte», vorrei segnalare i poco conosciuti «Laboratorio di carpentiere e lavanderia» ed «Essiccatoio per il pesce a Scheveningen», realizzati con tecnica mista nel 1882. Nel segno, apparentemente oggettivo, c’è piuttosto un evidente moto di empatia verso il mondo degli ultimi: basta un’osservazione più cosciente (e proprio il collegamento con i libri la stimola) perché quelle immagini stavolta rimangano stagliate nella nostra memoria visiva ed emozionale.

Per il resto, le tesi della mostra sono ampiamente dimostrate e condivisibili. La citazione di alcuni brani di lettere di Van Gogh fungono da significativa introduzione agli argomenti principali. La prima, contenuta in una missiva al fratello Teo, dice: «Io ho una passione più o meno irresistibile per i libri e ho il bisogno di istruirmi continuamente, di studiare, se vuoi, proprio come ho bisogno di mangiare il mio pezzo di pane». Una passione che porta avanti sino ai suoi ultimi giorni, con un interesse sempre presente verso le novità letterarie: molta narrativa importante e coeva, ma anche saggistica, specialmente quella dedicata agli sviluppi dell’arte. La seconda citazione, tratta da una lettera alla sorella Wil, si riferisce all’Oriente: «Quanto a me, non ho bisogno di stampe giapponesi perché mi dico sempre che qui (in Provenza, nda) sono in Giappone. E di conseguenza non ho che da aprire gli occhi e dipingere ciò che ho davanti e che mi colpisce».
Superata ma non dimenticata l’ammirazione dichiarata per il realismo del suo maestro elettivo Jean-François Millet, l’interesse per le stampe nipponiche, nato con un intento mercantile, si trasforma in un modo di dipingere che “semplifica” la realtà, secondo le lezioni di Hiroshige prima e del grande Hokusai dopo, che, con il suo “mondo fluttuante”, diventa importante fonte di ispirazione per Van Gogh, sino alla sua tragica fine.

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