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Perché dobbiamo ricordare: Antonio Salvati racconta la storia del "Pentcho"

Antonio Salvati è un magistrato con il “vizio” della scrittura. Giudice civile a Reggio Calabria è fondatore dell’originalissimo “Festival del Diritto e della Letteratura” che si tiene ogni anno tra Palmi e Reggio con ospiti giuristi di altissimo livello, attori e autori provenienti da tutta Italia. Salvati ha firmato un libro, edito dalla Castelvecchi, che racconta la storia del «Pentcho», un’imbarcazione usata da un nutrito gruppo di profughi ebrei per sfuggire ai nazisti.
Il romanzo racconta attraverso la voce dei protagonisti la fuga, lungo il Danubio, di 400 ebrei di diverse nazionalità da una Bratislava ormai rassegnata all'invasione delle truppe hitleriane. Con uno scalcagnato battello dal nome improbabile, Pentcho, dopo aver percorso l'intero corso del fiume i profughi puntano a raggiungere addirittura la Palestina. Infinite peripezie li condurranno invece in Calabria, a Ferramonti, il principale campo di concentramento per ebrei stranieri d'Italia.
Reali i dati anagrafici dei personaggi, realmente accaduti gli eventi del viaggio, veri il dolore e la speranza che l'hanno accompagnato: di pura invenzione tutto il resto. La prefazione al volume è di Paolo Rumiz.
Spiega Antonio Salvati: «La storia del Pentcho, per come l’ho raccontata, è come un portale che si apre su un universo di domande, ciascuna delle quali porta a un’altra domanda, e poi a un’altra ancora. La prima, e la più importante, mi sembra di estrema attualità oggi: a cosa serve davvero la memoria? Qual è il suo ruolo, se ne ha ancora davvero uno, nella formazione di una coscienza civile? Viviamo un tempo strano, in cui al moltiplicarsi di iniziative per mantenere accese le luci della memoria su eventi storici o su tematiche di particolare interesse collettivo non corrisponde affatto una maggiore attenzione, una consapevolezza più diffusa dei valori fondamentali per una convivenza pacifica. Al contrario, le parole d’ordine di questo tempo liquido, per dirla alla Zygmunt Bauman, sembrano essere altre: sfiducia, disillusione, pessimismo. E odio, certo: al punto che abbiamo inventato una nuova categoria: quella degli haters, appunto».
È davvero utile ricordare? Oppure la divinità suprema di questi tempi, la velocità, è ormai capace di svuotare di significato il ricordo, riducendolo a semplice ritualità, alla ripetizione di giornate sempre più uguali le une alle altre?
«Il Pentcho, il mio romanzo, non ha ovviamente una risposta univoca a una domanda del genere. Nel corso dei tanti incontri con i lettori ho notato che il personaggio che più colpiva i lettori della mia fascia d’età era Julia Kustlinger Presser, l’avvocata che si rifiuta di ricordare l’odissea di quella bagnarola perché, dice lei, è inutile illudersi: ci sono e ci saranno sempre degli altri Pentcho pronti a partire, in qualche parte del mondo, con il loro carico di dolore e di sofferenza».
È una presa di posizione dura e scomoda, volutamente provocatoria, la sua: un atto d’accusa che pretende una riflessione molto seria sul ruolo, appunto, della memoria.
«L’ispiratore della Giornata Europea dei Giusti, Gabriele Nissim, in un recente saggio che ho molto apprezzato dal titolo “Auschwitz non finisce mai”, lo dice in modo molto chiaro, quasi idealmente tendendo la mano alla mia Julia: se il racconto di ciò che è stato non rimane aperto a mostrare tutto il suo valore universale, e al contrario si svilisce nel venire piegato a questa o a quella esigenza particolare, allora davvero ricordare e raccontare non serve a nulla. È la lezione di Primo Levi, questa, cui non a caso chiedo di comparire all’improvviso, verso la fine del romanzo, ad intrecciare il percorso di uno dei fuggiaschi del Pentcho, Albert Freund, che davvero viaggiò incontro alla morte nello stesso convoglio dell’autore di “Se questo è un uomo” venendo immatricolato appena nove numeri dopo lo scrittore torinese».
«Non bisogna credere che questo tema – aggiunge Salvati – abbia solo un valore storico: basti pensare, ad esempio, a tutte le volte in cui la memoria delle parole di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino è stata utilizzata, stavo per dire rimasticata, per fini polemici o per scopi di miope utilità».
Il tema della memoria è centrale anche per il Sud, e per la Calabria in particolare.
«Il modo in cui noi ricostruiamo il passato, anche prima della tanto complessa Unità d’Italia, influenza infatti in modo evidente la narrazione del presente. Penso, in particolare, a quel senso di estraneità dal centro della storia che mi sembra avvilisca questa terra, relegandola alla continua rappresentazione di se stessa come sola e abbandonata, da sempre lontano dai luoghi, dai movimenti e dagli eventi che contano».
E quale potrebbe essere allora la chiave di volta per ribaltare questo schema interpretativo?
«Attraverso una lettura più completa e meno schiava degli stereotipi della Calabria grande, amara e perdente si potrebbe recuperare una realtà molto più veritiera: e cioè che questa terra è stata da sempre ben al centro dei flussi della storia, e questo sia sul piano culturale che su quello più direttamente politico. Non sono certo io a scoprire, ad esempio, che ad aprire a Petrarca e quindi all’Umanesimo le porte dell’universo e del pensiero greco antico sia stato un calabrese, Barlaam da Seminara; oppure, che Rossano è stata per secoli capitale dei possedimenti bizantini in Italia: in pratica, come pure è stata definita, la Ravenna del Sud. Prevengo subito le osservazioni sul punto, dicendo che è ovvio che tutto questo non aumenterà i posti di lavoro in Calabria né arresterà la drammatica fuga dei nostri giovani verso un altrove meglio organizzato o semplicemente più furbo. È innegabile, però, che a togliersi di dosso il manto stracciato della terra da sempre assente all’appello della Storia l’immagine della Calabria, qui ed oggi, avrebbe solo da guadagnarci: e non è cosa da poco, in un mondo in cui l’immagine è tutto».
«La parabola del Pentcho, e questa volta – conclude Salvati – mi riferisco a dire il vero più al mio libro che al fatto storico del viaggio di quel manipolo di ebrei disperati, a ben vedere ha quindi proprio il tema della memoria come punto centrale di riflessione, come bandolo dal quale partono tutti gli altri fili del gomitolo. Continuare a ricordare, a rievocare, può essere allo stesso tempo sia un potente anestetico sia uno stimolo forte per cercare di cambiare lo stato delle cose: sta solo a noi decidere come utilizzare questo impulso naturale dell’uomo».

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