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L’ultimo McCarthy: il dolore e la verità di "Stella Maris"

E’ difficile chiudere «Stella Maris» (Einaudi), l’ultimo e già leggendario romanzo del leggendario Cormac McCarthy, senza un groppo alla gola dovuto all’emozione, alla commozione. Sì, è difficile frenare le lacrime, una volta chiuso «Stella Maris». Sia perché hai dentro di te la consapevolezza di avere appena finito di leggere un romanzo unico, perfetto, d’una bellezza rarefatta, come l’aria che si respira con difficoltà a grandi altezze; sia perché ci si rende conto di avere appena finito di leggere un’opera irripetibile, simile appunto a una vetta irraggiungibile. E certo una soluzione c’è: si può sempre ricominciare a leggerlo.
«Stella Maris» è pubblicato in Italia da Einaudi, nella traduzione di Maurizia Balmelli. In teoria sarebbe il seguito de «Il passeggero» (romanzo pubblicato qualche mese fa da Einaudi, sempre nella pregevole traduzione della Balmelli), con cui compone un dittico dell’addio, compreso l’addio di Cormac McCarthy a questa nostra ardua dimensione corporale. E in effetti «Stella Maris» è strettamente collegato al «Passeggero», se non altro perché la protagonista di «Stella Maris» è Alicia Western, sorella minore di Bobby, a sua volta protagonista del «Passeggero».
La storia è ambientata nell’ottobre del 1972 e inizia quando la appena ventenne Alicia si presenta alla clinica Stella Maris, struttura aconfessionale e casa di cura per pazienti psichiatrici medicalizzati. Particolare non trascurabile, Alicia ha altri due ricoveri alle spalle e, quando bussa alla porta della Stella Maris, ha con sé una busta con quarantamila dollari in contanti. Ma tutto questo ha un senso solo come collegamento formale col precedente romanzo del dittico, perché il lettore può anche metterlo da parte. Alicia – genio della matematica e Qi fuori del comune, nonché violinista ed esperta oltre che della scuola cremonese di liutai anche (e ovviamente) di Bach – ha bisogno d’aiuto, dal momento che non riesce a sopportare l’idea della morte del fratello con cui ha condiviso un rapporto dolorosamente incestuoso. Ecco, è qui che inizia il romanzo che si rivela fin dall’inizio come la spiazzante “registrazione” dei lunghi colloqui fra la geniale Alicia e il paziente dottor Cohen che cerca di starle dietro.
Con estrema naturalezza Alicia spazia da Kant a Gödel, da Quine a Wittgenstein (raccontati con la semplicità di chi sa), ma si abbandona anche ai ricordi avvelenati d’una giovane irrealizzata e sofferente. Dunque un romanzo composto soltanto da dialoghi, laddove le descrizioni, gli accadimenti nascono dai dialoghi stessi. Come nella tragedia greca la storia la vediamo ricostruita dal racconto degli attori in scena. Un esempio preso a caso: «(…) La verità dell’universo era all’altro capo di quelle equazioni. I fisici di questo cosa dicono? Niente di che. Perlopiù alzano gli occhi al cielo. Non sono tipi kantiani. Il problema con l’assoluto inconoscibile è che se si potesse dirne qualcosa non sarebbe più l’assoluto inconoscibile». Un altro esempio: «Crede in una vita oltre la vita? È in questa che non credo». Chi pensava che nell’evoluzione della specie-romanzo del Novecento sarebbero rimasti insuperati gli esempi di Georges Perec con «La vita istruzioni per l’uso» e David Foster Wallace con «Infinite Jest», dopo aver letto «Stella Maris» si dovrà ricredere, per la capacità che ha McCarthy di contrapporre, secondo le parole di Calvino, «l’ordine della mente alla complessità del mondo».
Insomma, che aspettate, andate a comprare «Stella Maris». Questo mondo potrà solo migliorare se lo leggerete.

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