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Il singolare non-romanzo di Fabio Luppino: perdenti, non sconfitti. E c’è ancora speranza nel futuro da inventare.

In bilico tra testimonianza e invenzione, ripercorrendo la Storia e la storia dei media

Chissà quali sono quei giorni. Chissà qual è la speranza che anima quelle pagine, che pure parlano quasi soltanto di sconfitte. Chissà perché, l’autore alla fine del libro riesce a convincerci che sia possibile ricominciare, rifondare, fabbricare il futuro. Lui è Fabio Luppino, giornalista romano (d’ascendenze calabresi) di lungo corso che del mestiere ha visto, e fatto, proprio tutto: 25 anni all’Unità, di cui, soprattutto, ha vissuto le ultime, frenetiche trasformazioni e la fine, deskista ma anche inviato (nella ex Jugoslavia), colonna del cartaceo ma anche mago dell’online (dal 2018 lavora all’Huffington Post). E di come il giornalismo si è trasformato e si trasforma – come le nostre vite, come la politica – parla nel suo ultimo libro, «Quei giorni torneranno» (Santelli). Anche quello oltre e avanti, a metà tra narrazione e pamphlet, tra racconto generazionale e personale requisitoria sul tempo e sui tempi, tra invenzione e documento.
Sfugge a ogni classificazione il libro in cui Luppino tocca a una a una tutte le corde sensibili d’un paio di generazioni: il personale è politico, ma ormai siamo nell’era in cui il politico diventa personale, anzi individuale, da “uno vale uno” ai partiti-persona (che sono cose molto più vicine tra loro di quanto non sembri). Ci sono almeno quarant’anni di storia italiana – e di nostra storia intima e condivisa – nei quattro capitoli del libro. Quattro più una postilla. Ma, anche qui, le definizioni non bastano: non è una postilla, è un frammento di metanarrazione, incastrato tra la memoria personale e le memorie collettive, e riguarda la foto di copertina. Fu scattata nell’ottobre del 1993 da Alberto Pais, ad una manifestazione dei sindacati, a Roma, a cui era presente Luppino: due manifestanti, a terra, s’abbracciano in mezzo ai lacrimogeni.
Ecco, in quello scatto – casuale eppure cercato, immediato eppure meditato – sono condensate molte cose di cui questo libro che scavalca i generi parla: la storia, collettiva e personale, di chi credeva e crede che «libertà è partecipazione», e che oppone alla violenza la cosa più umana e più “giusta” che c’è, ovvero proteggersi a vicenda, avere cura dell’altro. Che non è debolezza, è amore. Che non è resa, è resistenza pacifica (allora non si usava una parola adorata di questi tempi: resilienza).
Lungo tutto il libro s’intrecciano le storie di cinque donne, su piani temporali diversi – ma nella coscienza non esistono piani temporali: tutto è presente e produce effetti – gli anni 80 e 90, l’epoca della “Pantera” e poi il nuovo millennio, la svolta brusca nella politica, nei media. La crisi della sinistra, la spirale che niente sembra davvero invertire. E i dilemmi e le crisi di chi la realtà la deve raccontare, e ogni giorno si misura con la necessità di rappresentare fedelmente il reale – che già è compito arduo – e pure di prefigurare l’avvenire (uso a bella posta la stessa parola dell’ultimo film di Nanni Moretti, che parla di cose molto simili, e come sempre intreccia personale e politico esattamente come sono intrecciati nelle nostre vite, anche di chi non lo sa o non lo vuole).
Giovanna, Ginevra, Alice, Francesca, Giulia sono donne abbaglianti, che scelgono, vogliono, insistono, e anche se perdono non sono mai sconfitte, anche se hanno punti di fragilità non cedono. Le donne, nel libro di Luppino, prendono tutte le iniziative – il controcanto relazionale delle vicende epocali che vivono e che alcune di loro per mestiere raccontano. E gli uomini con cui hanno a che fare, invariabilmente, disvogliono, rimuginano, costruiscono alibi e paratie, si eclissano. Le donne sono una forza meravigliosa a vedersi, costruite sulla pagina con un rispetto trepidante, e credo che Luppino abbia scritto un libro profondamente femminista.
Così come, denunciando la crisi dei media, ha raccontato, senza mai nominarla ma chiamando per nome e cognome alcuni protagonisti della sua ultima stagione, la storia dell’ “Unità” da dentro, come ancora nessuno l’aveva raccontata. E facendolo ha ricapitolato cosa può, cosa dev’essere fare giornalismo, oggi. Nell’epoca in cui abbiamo le risorse tecnologiche più fantastiche e le più grosse incertezze etiche.
«La realtà è un mosaico di piccole cose e ogni angolo dove c’è un uomo ha ragione di essere rappresentato», dice a un certo punto Giovanna. E in questi giorni, davanti a una guerra che è molto difficile raccontare, davanti a un’umanità che ci chiede d’essere rappresentata su ogni fronte, queste parole ci toccano molto.
Luppino non lascia mai che la sua autocritica diventi amarezza, che la sua delusione diventi pessimismo, che le battaglie perse dalla sua, dalla nostra generazione ci convincano che la storia è finita. «Non siamo alla fine della storia, anche se a qualcuno fa comodo dirlo». Ci salveranno le ragazze e i ragazzi, dice Luppino. E con loro, grazie a loro quei giorni torneranno.

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