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Ian Thomson e quella conversazione con Leonardo Sciascia

Aveva ventiquattro anni Ian Thomson, giornalista e scrittore inglese, quando nel maggio del 1985 scriveva a Leonardo Sciascia (l’indirizzo civico glielo aveva fornito Italo Calvino) perché gli concedesse un’intervista per il “London Magazine”. E Thomson, interessato all’Italia, alla Sicilia e alle cose di mafia, e ottimo conoscitore delle opere di Sciascia, era deciso, per intervistarlo, a raggiungere lo scrittore da Roma, dove si trovava, a Palermo o a Racalmuto. S’incontrarono a Palermo, nell’abitazione di viale Scaduto di Sciascia, dove si svolse un’articolata conversazione oggi pubblicata da Rubbettino nella collana sciasciana nata come iniziativa della «Fondazione Sciascia» di Racalmuto e curata da Vito Catalano, nipote dello scrittore: una piccola biblioteca che si propone di pubblicare libri legati a Sciascia, saggi e studi sulla sua opera, suoi carteggi, conversazioni. Come questa di Thomson, curata e tradotta dalla docente anglista racalmutese Adele Maria Troisi, legata agli Sciascia da rapporti di amicizia famigliare e che proprio in una delle serate di letture estive alla Noce (la casa di campagna amatissima da Sciascia) ha raccolto la proposta di Vito Catalano, anche lui scrittore, di tradurre l’intervista di Thomson e le lettere che il giornalista e il nonno si scambiarono prima e dopo il loro incontro.
Conversazione che la curatrice – come avverte nella nota al volumetto – riporta mantenendosi fedele all’originale in inglese. Perciò il testo mantiene la freschezza delle annotazioni di viaggio di Thomson, l’approdo in Sicilia che «vista da Reggio Calabria (così scrive), con la sua grossa gobba rocciosa come la schiena di un Leviatano semisommerso, è difficile credere possa essere una metafora per qualsiasi cosa» e quindi il percorso in treno tra «un panorama riarso e lunare» e il «blu innaturale del mare», e, finalmente, Palermo, con la sua luce «solare secolare e di una polverosa eternità, la violenza di un cielo che è troppo blu, il vento africano e le strade che hanno una qualità vigile e violenta». «Appare chiaro come ci si trovi in un altro mondo», scrive Thomson anche se poi Sciascia, che lo accoglie elegante sulla porta di casa («un curioso incrocio tra Albert Camus e Humphrey Bogart»), e la sua interessante stanza-studio con, tra le altre cose, la foto incorniciata di Pirandello a ridosso della Olivetti portatile e di un grosso pezzo di zolfo, danno all’incontro la direzione giusta: una colta conversazione sulla produzione sciasciana e sui grandi temi-denuncia dei suoi libri, la sua parola onesta che guarda «allo scetticismo voltairiano come la valvola di sicurezza della ragione». E il suo manzonismo, e Simenon, e Daniel Defoe e Graham Greene, tra gli autori inglesi preferiti, e, ancora, la sua ammirazione per l’illustratore Arthur Rackham (aveva illustrato «Alice nel paese delle meraviglie»). Da Londra, nel 1987, Thomson avrebbe inviato a Sciascia, che lo ringraziò, l’intervista sul London Magazine e un libro illustrato di Rackham, insieme alle informazioni, per soddisfare la curiosità dello scrittore, su studi e sull’attività di pittore dell’illustratore inglese.

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