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«La vita è breve, eccetera» di Veronica Raimo: la narrazione come atto di ribellione alla realtà

Se fosse un poeta si guarderebbe allo specchio e prenderebbe appunti. Invece, Veronica Raimo è una scrittrice. E nei suoi racconti – è appena uscita l’ultima raccolta, «La vita è breve, eccetera» (Einaudi) – lascia che siano i suoi personaggi ad attraversare la realtà e a prendere appunti. Più che resistenza, quella delle protagoniste dei suoi racconti è abitudine. Ecco, le sue protagoniste si sono abituate a resistere. E lo fanno in tutti i modi, forse improbabili, forse non sempre giusti, ma sicuramente veri.

È l’autenticità il cuore della scrittura da cui nascono le storie di Veronica Raimo. È come se ognuna delle eroine di queste undici favole del nostro tempo fosse presa da una tale voglia di non dire la verità da non sopportare quelli che dicono sempre le cose come stanno: la narrazione, dunque, come atto di ribellione alla realtà, innanzitutto, ma anche come rivendicazione della libertà di ricostruire la sedicente realtà costruita da tutti gli altri con altre parole, in modo diverso.

Le protagoniste dei suoi racconti sentono tutto il peso del banale. A volte lo assecondano, a volte lo combattono, ma sicuramente cercano di non assomigliargli. D’altra parte questo è impossibile, perché è la scrittura della Raimo a costringere le sue protagoniste a guardare se stesse– con ammirazione, forse, ma anche con stupore – e a continuare a studiarsi come se fossero davanti a uno specchio.

La scrittura della Raimo è pericolosa. Senza fronzoli. Senza scrupoli. Fa paura, come lo specchio, appunto. Ma non scappa da tutti i lati. Riflette il pensiero del lettore. E lo nega. Il lettore la sente respirare nel buio, come un nemico che prima o poi gli toccherà affrontare. Lo costringe a subire la verità: i vocaboli di cui si nutre la scrittura della Raimo sono pelle, occhi, sangue. La sua lingua, la sua scrittura sono affidate ai monologhi di Roberta, Irene, Carla, Marianna – per citare i nomi di alcune protagoniste – che a un certo punto delle loro storie si fermano e stanno ad ascoltare l’inutilità di tutto.
Ed è piacevole, in fondo, come guardare il mare dall’alto della scogliera. Poi, tocca a te decidere se fare un bel tuffo nell’oceano dell’esistenza oppure rimanere a osservare da lontano il panorama. «Una parodia di vita dove abbandonarsi alla vanità dell’infinito squallore»: è solo questo che cercano i suoi personaggi? In effetti, Silvia, la protagonista di “Canicola privata”, lo ammette sin da subito: «Adorava il Dio dello squallore». Nelle sue foto – Silvia fa la fotografa – «riusciva a trovare la rovina in tutto, piaghe di malessere sotto volti sorridenti, paesaggi pieni di disamore e lontananza. (…) Ogni singolo oggetto si trasformava in scoria. Relitto. Rifiuto. Un mondo di cose andate alla deriva». Ecco, quelli della Raimo sono racconti dietro i quali l’ironia nasconde maldestramente la malinconia, storie che ricordano molto da vicino i “piccoli contrattempi del vivere” di Grace Paley («volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta»), in cui il tono dissacrante mette ancor più in evidenza il fascino irresistibile che prova l’autrice per l’attimo presente.

Ne scaturisce un ritratto composito delle donne e delle loro relazioni, un ritratto figlio di uno “sguardo libero” che diverte, sicuramente, ma nel contempo ci porge briciole d’assoluto: «Non avrebbe voluto uccidere nessuno. Oppure tutti».

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