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Lei, Berthe Morisot: impressionista e rococò

La sua stella, troppo a lungo eclissata dai colleghi maschi, adesso può brillare

Quel 15 aprile 1874, in rue de Capucines, a Parigi, ad esporre c’era anche lei, Berthe Morisot, in barba alle regole e ai pregiudizi, in barba alle convenzioni dell’Accademia che l’aveva rifiutata in quanto donna. Era lì con loro, con quei ragazzi che cambiarono la pittura e che cambiarono la storia. Dieci giorni dopo, un articolo apparso sul giornale satirico «Le Charivari», a firma di Louis Leroy, con spregio, li definì «Impressionisti». Era nata l’arte contemporanea.
Il sole cominciava a riscaldare le soffitte di boulevard des Capucines col tepore della primavera e la sua luce rendeva le strade, gli alberi, gli argini della Senna labili, privi di confini. Era una bella brigata, dei meravigliosi e rissosi compagni di strada, uomini liberi che non hanno mai pensato che il suo posto dovesse essere fra le mura domestiche. L'anno precedente, nel 1873, avevano creato la «Società anonima degli artisti, pittori, scultori, incisori», e così si erano chiamati e presentati al pubblico. Berthe espose 9 opere, fra le quali la culla, dipinto nel 1870, quando i fragori della comune dentro Parigi, e della guerra al confine con i prussiani, avevano richiamato la maggior parte dei suoi compagni, Édouard, suo fratello Eugéne, e gli altri mentre lei si era rifugiata dalla sorella Edma in campagna, a Cherbourg.
La inteneriva la sua figura chinata sulla culla della nipotina. Anche la sorella aveva preso lezioni di pittura e di disegno fin da ragazzina presso Joseph-Benoit Guichard, un maestro d’arte seguace di Delacroix, ma, dopo il matrimonio, aveva smesso di dipingere. In quel rutilante 1874, dopo la mostra, si era sposata con Eugéne Manet, il fratello di Édouard. Aveva incontrato Édouard nel 1867 al Louvre, dove molti pittori si recavano da quando la Rivoluzione lo aveva reso pubblico luogo di paideia, forse si era invaghita di Édouard, forse anche lui se ne era innamorato, di certo la loro amicizia fu intima, profondissima, parlavano di colore, di luce, della trasparenza dell’acqua, erano felici, invasati, la pittura era la loro vita. L’esile ed elegantissima Berthe dai grandi occhi neri, forse per affermare ulteriormente la sua indipendenza, non acquisì mai, com’era consuetudine, il cognome del marito e continuò a firmare le opere con il suo nome da nubile fino alla morte, avvenuta nel 1895.
Il riconoscimento del talento di Morisot è cresciuto nel tempo, segnato da mostre straordinarie e da un rinnovato apprezzamento critico. La sua stella, a lungo eclissata dai colleghi maschi, brilla ormai incontrastata. Fino al 3 marzo un’accurata mostra al Museo Marmottan Monet di Parigi contribuisce a tale percorso dimostrando la sua importanza non solo tra gli Impressionisti, ma anche nella più ampia storia dell'arte e ne mette in luce nuovi aspetti. La retrospettiva «Berthe Morisot et l’art du XVIII siècle» raccoglie ben 65 dipinti, mettendoli in relazione con i lavori dei suoi predecessori – Antoine Watteau, François Boucher, Jean-Honoré Fragonard, Jean-Baptiste Perronneau e altri –, così da evidenziarne l’influenza. A cura delle storiche dell’arte Marianne Mathieu e Dominique d’Arnoult, con il contributo essenziale di Claire Gooden curatrice del Museo, la rassegna si basa su documenti inediti, lettere, ritagli di giornale, appunti appartenenti all’artista e a suo marito Eugène Manet che hanno permesso di ricostruire il contesto e la cronologia della produzione di Morisot e che sembra abbiano sconfessato la presunta parentela con Jean-Honoré Fragonard.
Non è dunque la discendenza, la meccanica di un albero genealogico, a evidenziare il legame col secolo dei lumi ma la connessione che trascende il tempo e lo stile. Con i suoi ritratti suggestivi e le scene di vita quotidiana bagnate di luce, Morisot ha superato i confini artistici del proprio tempo fondendo la sensibilità moderna con l'ammirazione per il passato e traducendo la leggerezza rocaille in un linguaggio ancora più luminoso e sfrangiato; cosa che i suoi stessi colleghi le riconobbero paragonandola spesso ai pittori del XVIII secolo.
Renoir la definì «l’ultima artista elegante dopo Fragonard» e, in occasione della sua retrospettiva postuma nel 1896, Paul Girard la recensì: «È il Settecento modernizzato».
Tutto ruota intorno alla leggerezza e allo sfaldarsi dell’immagine nella luce in cui la complicità di scenari e di soggetti, soprattutto femminili, è condivisa con Watteau e col Fragonard dei boudoir, l'uso del pastello trova consonanza nell'arte di Perronneau (ma oserei dire, anche di Rosalba Carriera) e, nelle ultime opere, giunge a prendere in prestito perfino la sensualità di Boucher.

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