Li abbiamo seguiti col fiato sospeso, quei due vecchi signori, ridendo di certe cose, trasalendo ad altre, con l’oscuro timore di riconoscerle, di riconoscerci (ché il palcoscenico, comunque e sempre, è luogo di svelamenti e riconoscimenti). Sono due vedovi, in effetti, che si conoscono sulla tomba della donna che è stata moglie di uno dei due, David, e “compagna” dell’altro, Edoardo – in una definizione particolarmente ardua dei confini di questa parola, e, per esteso, dei confini e del significato di ogni relazione e legame. Il centro e la chiave di tutto sembra essere lei, la donna sfuggente alle definizioni, perché comunque funzionano tutte: moglie, amica, compagna, oggetto d’amore e di rimpianto, puttana (lo dice, in un impeto, il più sanguigno dei due, David), vittima, carnefice, colei che viene scelta, colei che sceglie, anzi non sceglie. Lei che nemmeno è in scena, se non in forma di fantasma, o ossessione, o rêverie. Questo triangolo falso (ma ci sono rapporti che non siano di complicata geometria assai diversa da quella, elementare, che ci aspettiamo? E ciao ciao, Euclide...) è il nodo dello spettacolo «I cambi di stagione», in scena fino a stasera al Teatro Vittorio Emanuele dove venerdì ha debuttato con vivo successo.
Uno spettacolo che combina un testo assai noto, andato in giro in tutto il mondo, e una messa in scena che riunisce uno straordinario gruppo di eccellenze messinesi, amate e apprezzate in tutta Italia: gli interpreti Antonio Alveario (David) e Maurizio Marchetti (Edoardo), il regista Francesco Calogero, la produzione di Maurizio Puglisi per Nutrimenti Terrestri.
«I cambi di stagione» è la nuova veste (traduzione e adattamento sono del regista Calogero) di quel «Mister Halpern & Mister Johnson» di Lionel Goldstein scritto nel 1983 come film tv (interpreti: Laurence Olivier e Jackie Gleason), poi diventato spettacolo teatrale di successo mondiale. Joseph Halpern è qui David, produttore e commerciante di scatole di cartone ebreo, e Ernest Johnson è Edoardo, commercialista in pensione, estraneo alla cultura ebraica. Che, lo diciamo subito, è forse la “linea” del testo meno perspicua e significativa, per il pubblico italiano (a parte la stretta attualità che rende diversamente “significativi”, oggi, i pochi simboli della fede ebraica della famiglia di David in scena), ma serve nell’economia della narrazione a marcare meglio e più fortemente la differenza tra i due protagonisti: il commerciante pragmatico, abituato alle certezze, e il commercialista più sensibile e colto; quello che canta De Andrè e quello che si commuove per «La traviata»; il marito di Maria Flora e il “compagno segreto” di Flo. Per quarant’anni. Con incontri accuratamente normati (mai contatti fisici, al massimo tenersi la mano) e scanditi dai «cambi di stagione».
Quelli che vediamo nello scenario alle spalle dei due personaggi (elemento quasi cinematografico, che sappiamo è terreno di formazione e attività del regista, con la collaborazione del visual artist Giovanni Bombaci), in cui l’immagine di Maria Flora “Flo” è quella, botticelliana ma anche da femme fatale (e sono vere entrambe) di Tania Luhauskaya: un viale d’alberi dove le stagioni trascorrono e scolorano, e dove appare – come fantasma e sogno e ricordo – la misteriosa, elusiva donna che Edoardo e David credevano di conoscere profondamente, e che forse ha ingannato entrambi, o meglio entrambi ha gestito, senza scegliere e prendendo per sé il meglio di ciascuno (brava Maria Flora Flo, chiunque tu fossi: probabilmente una terza persona, né Maria Flora né Flo, più saggia e più felice di questi due poveri cristi, ciascuno annegato nella sua solitudine).
E allora forse più delle differenze tra i due – che poco a poco, nella consumata bravura dei due ottimi interpreti Alveario e Marchetti, capaci di aggiungere sfumature ad ogni battuta, s’impongono e trascinano (parteggiamo per Edoardo e la sua sensibilità, poi per l’impetuoso David e la sua sorpresa, e poi al contrario e di nuovo, mentre in scena si e ci svelano) – conta quanto si somigliano, quanto poco cambiano le stagioni delle relazioni, malgrado la loro superficie continuamente in movimento. E come, forse, i matrimoni possono essere altrettante, ingannevoli “case di vetro”, proprio come la serra davanti alla quale i due s’incontrano, e possiamo per tutta la vita essere persone di cui persino i più vicini a noi sanno poco o nulla.
Un tema antico, e mai abbastanza declinato, vista l’attenta ed emozionale risposta del pubblico. A cui va aggiunta una piccola nota: è stato bello vedere l’abbraccio di Messina ai “suoi” artisti, perché gli artisti sono un patrimonio dei luoghi, dovunque siano e vadano, e riuscire a richiamarli a sé, raccoglierli e abbracciarli, almeno ogni tanto, è cosa che tutte le comunità dovrebbero fare, sempre.
Le scene essenziali sono di Mariella Bellantone, i costumi di Cinzia Preitano, le luci (che modellano i tempi esteriori e interiori) di Renzo Di Chio; ha collaborato alla regia Laura Giacobbe.
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