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Paladino e il suo nuovissimo antico in mostra a Bologna. Venti grandi opere a Palazzo Boncompagni

Palazzo Boncompagni giustificherebbe da sé una visita a Bologna. Vi abitava Ugo, cardinale diventato nel 1572 papa Gregorio XIII in un conclave durato meno di 24 ore. Uomo coltissimo ed eclettico, questo Papa era di vedute assai per così dire moderne. Decidendo opportuno crearsi un erede per mantenere in famiglia i suoi ingenti beni, incurante dell’ovvio scandalo si assicurò la discendenza Boncompagni attraverso una signorina nubile della quale riconobbe il figlio. Essendo uomo di legge (il Papa) si adoperò anche in riforme salutari, come il riordino del diritto canonico e promosse una vasta opera missionaria con gesuiti inviati in Cina e Giappone. Tornando a Palazzo Boncompagni, oggi Benelli (appartenente alla famiglia Pizzighini Benelli), il sontuoso edificio è uno dei più begli esempi del Rinascimento bolognese. È incluso nelle visite del Fai e adibito anche all’allestimento di prestigiose mostre.

Ora, nel 50mo anniversario di Arte Fiera di Bologna, con il sostegno di EmilBanca, è in atto fino al 7 aprile la mostra «Mimmo Paladino nel Palazzo del Papa», curata da Silvia Evangelisti autrice, assieme a Paola Pizzighini, anche del catalogo edito da Pendragon, redatto in italiano e inglese.
Sono esposte una ventina di grandi opere. Paladino «o del cavallo», come Pomodoro «o della sfera» . Il cavallo, icona di Paladino, è un animale grande, elegantissimo, ritto su interminabili zampe. Lo si trova ovunque. Troneggia pure al Vittoriale, dove domina il Teatro della fastosa dimora del Vate. Giustamente, apre anche questa mostra: 13 cavalli neri invadono la Sala delle Udienze papali. Questa volta però i cavalli hanno perduto le loro ardite gambe. Sono quasi masse informi che sembrano dibattersi in un misterioso imprigionamento da cui si vogliono liberare. Il contesto è pertinente: la grandiosa sala cinquecentesca suggerisce eventi epocali, manifestazioni impressionanti.

Paladino ha sempre guardato alla cultura antica, trasferendola nell’attuale con una sorta di stratificazione. Quello che c’era viene immesso nel mondo di oggi attraverso nuove forme e nuovi concetti. Nulla si è perso nel tempo, tutto ritorna. Con aggiunte, altri linguaggi, altre immagini. Un muro di pietre è ricostruito su elementi preesistenti. Qui si riconosce – come l’Artista stesso ricorda – la sua forte componente culturale di uomo del Sud (Paladino è nato a Paduli, Benevento, nel 1948, e si è affacciato al mondo dell’arte grazie allo zio paterno, pittore). Una forza ancestrale, vedi tenebrosa, esplora cammini arcani, quasi da sciamano.

Avere puntato su questo aspetto dell’opera di Paladino è il merito primo della mostra di Bologna. Oltre all’allestimento magistrale dei 13 cavalli nella Sala delle Udienze, all’ingresso della Loggia coperta stanno due grandi guerrieri e sette personaggi-ideogrammi appartenenti alla celebre opera «Respiro» del 1995 e un gigantesco elmo di bronzo (1998) sul quale sono tracciati segni magici, cifre misteriose. Vien da pensare al Cile, alle mai decifrate figure di Nasca.

Caso fortunato e quasi unico, Paladino non rientra nei «Nemo propheta in patria»: è stato subito compreso ed accettato nel mondo dell’arte. Grazie al critico Achille Bonito Oliva, conosciuto a Napoli, con cui stabilì un rapporto stabile, a vent’anni già esponeva a Portici e da lì presto alla Biennale di Venezia, dove nel 1989 ebbe addirittura una sala personale.

Mostre e riconoscimenti nel mondo intero, in spazi prestigiosi, dal Forte del Belvedere di Firenze alla Città Proibita di Pechino (1994), primo occidentale ad esservi stato ammesso. Affascinato da giovane dalla Pop art, Paladino è passato da tutte le esperienze possibili, iniziando con la fotografia e poi il collage, l’incisione, i libri d’artista, la scenografia. Contattato dal gruppo della Transavanguardia, nel 1980 fu addirittura presentato a Venezia quale esponente di punta. Da sempre lo attirano i grandi spazi ambientali, le imprese monumentali : il complesso abitativo realizzato a Paduli con l’architetto Roberto Serino; la ricostruzione di Gibellina dopo il sisma, con la «Montagna di sale» (in realtà vetrocemento e resina) cosparsa di cavalli neri; la collaborazione con Renzo Piano alla chiesa di san Giovanni Rotondo. E quella «porta di Lampedusa», quasi un relitto, un portale archeologico conficcato imperiosamente nella sabbia delle dune, davanti al mare.

Nella pittura Paladino ha un gesto sicuro e imperioso. Sempre vivi e puri i colori. Le tecniche sono plurime: mista, olio su tela, garza. Non esclude niente. Nemmeno nei soggetti: dall’immateriale al figurativo. Come avviene in Mostra dove sono anche esposte le sue «Madonne nere», ieratiche, rigide, intransigenti.

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