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Parità, anzi «complementarità». Alla radice della questione dei generi, per uscire assieme dal labirinto

La riflessione per la Giornata internazionale della donna

Genere e differenze di genere. Termini di una perenne diatriba intorno a cui ruotano stereotipi e pregiudizi, nel circuito ricorsivo che marca netto il confine tra ruoli prestabiliti come tipici dell’uomo o della donna. Un vero labirinto che intrappola identità e scelte dei sessi opposti, dal quale le società contemporanee non riescono a trovare la via d’uscita. Il problema del gender gap è infatti sul tappeto anche nei contesti di maggiore civiltà e sviluppo, ove la tanto discussa «parità di genere» mantiene comunque lo sdoppiamento di polarità che ne fa una questione «maschile» o «femminile». Perché il genere richiama antropologicamente il «potere», storico appannaggio maschile e spartiacque tra i sessi, nonché base di un diffuso malinteso senso della parità.

Parità non significa infatti negazione di differenze, e non si traduce nella totale omologazione del maschile al femminile, o viceversa, ma nella uguale opportunità di scegliere obiettivi personali e concepire progetti in condizione di assoluta libertà, privi da qualsiasi condizionamento socialmente determinato. Secondo la giusta accezione della pari opportunità, il potere, non più declinato sul genere, diventa infatti conquista legata al merito, liberandosi da quell’aura di sopraffazione che ne devia il significato autentico.

Tuttavia, nonostante il numero delle donne di potere sia in crescita esponenziale, e molti ruoli di spicco oggi siano declinati al femminile, è innegabile che per la donna il prezzo da pagare per farsi strada nel mondo è sempre elevato, e in molti casi una differenza di trattamento economico a parità di ruolo con l’uomo sancisce uno sbilanciamento di potere connesso alla sommessa volontà di mantenere la donna in condizione di subalternità. C’è ancora molta strada da fare quindi e tanti sono i muri da abbattere per raggiungere la dignità della parità totale; ma l’impegno necessario per demolire ulteriori barriere non può essere soltanto una «questione femminile».

Ne è metafora perfetta lo spot Tim firmato da Giuseppe Tornatore, che, attraverso immagini di forte impatto e significato, racconta in modo efficace il gap del gender, ribadendo indirettamente la necessità di un impegno corale, non esclusivamente femminile.
«La parità non può attendere» è lo slogan che suggella quei pochi minuti di racconto verità, che ha un labirinto come location in cui si muovono due personaggi di sesso opposto. Sì, un labirinto, proprio come la vita di tutti, in cui sia uomini che donne possono perdersi. Non è facile trovare la propria strada nel mondo, ma diventa impossibile se il sentiero che porta all’uscita è bloccato da muri. I protagonisti del cortometraggio imboccano assieme il labirinto, ma le loro strade a mano a mano divergono, in base a specifiche risposte che ciascuno dà alle domande che si illuminano entro le piattaforme ai loro piedi.

«Avere figli ti ha penalizzato?»; «Guadagni meno del/la tuo/a collega?»; «Hai mai subìto molestie?». Ad ogni passo, i due si allontanano sempre più, sino a perdersi di vista; e mentre lui trova l’uscita, lei rimane intrappolata fra i muri. Ma la donna, si sa, è una guerriera, non rinuncia alla soluzione, nonostante le tante, troppe frustrazioni e gli innumerevoli ostacoli verso l’emancipazione.

E come Uma Thurman in «Kill Bill» – che sepolta viva cerca di uscire… a mani nude – la donna dello spot si toglie una scarpa e con il tacco colpisce il muro più volte. Ad ogni colpo appaiono numeri che fanno riflettere: «Ancora 169 anni per raggiungere la parità economica, 162 per la parità politica, 131 per le pari opportunità...». E sono cifre tratte dal rapporto del Forum Economico Mondiale sulla Disparità di Genere.

Una verifica, anche sommaria, delle cifre conferma ad esempio che la parità politica, suggellata dal diritto al voto, risale al 1893, anno in cui la Nuova Zelanda fu il primo paese al mondo a concedere alle donne di votare. In Italia, nonostante il voto fosse permesso in alcune prefetture già nel 1880, il suffragio femminile fu emanato a livello nazionale nel 1945, con il decreto legislativo luogotenenziale 23. Nel XX secolo, a partire dagli anni 90, il voto femminile venne riconosciuto in tutto il mondo, tranne che in alcuni paesi musulmani e nella Città del Vaticano.

Ancora oggi, seguendo la metafora del labirinto, vediamo che il gender gap poggia sulla fondamentale contraddizione di un femminile in ascesa, e un maschile che, sebbene imbocchi con facilità l’uscita, spesso mal sopporta che la donna possa abbattere muri e barriere a mani nude, contando esclusivamente sulle proprie forze. Non c’è dubbio però che uomini e donne, attraverso l’esperienza, modifichino nel tempo il rapporto tra loro e col mondo in una logica di “reciprocità”. Ma questa non comporta necessariamente la parità, legata specificamente all’equilibrio della “complementarità”, che, nel rispetto dell’individualità, esalta l’enorme ricchezza insita nelle differenze. L’esercizio della complementarità sembra quindi essere l’unica via d’uscita al disagio relazionale tra i sessi, in grado di abbattere, col contributo di uomini e donne, i muri del pregiudizio e della diffidenza sul genere.

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