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L’arte è Battaglia. Xante

A colloquio con l’artista calabrese, 81 anni, alla sua ultima mostra, a Pavia. Contro la pittura come decorazione, in un percorso di veli, squarci, “iconocubi”, “opere binarie” e varie magnifiche... post-trasgressioni

Le cento opere che compongono la mostra antologica allestita a Pavia, ormai sua città di adozione insieme con Milano, sono significative di un cammino artistico sempre “anti” e “contro”, non per partito preso, ma come espressione di un convinto cammino verso l’essenza dell’arte. Contro la pittura come mera decorazione, anche quando è di indubbia bellezza, perché secondo lui l’arte deve avere sempre un significato per poter testimoniare il proprio tempo ed esercitare un inalienabile diritto di critica sociale. Xante Battaglia, 81 anni ottimamente portati, legato alla sua amata Calabria (è nato a Gioia Tauro, il padre era commerciante di agrumi) all’apertura della mostra appare sempre combattivo e pronto a contestare, quasi che il suo noto postconsumismo abbia continuato il suo cammino verso il postpostconsumismo per segnalare come la società umana di cui facciamo parte piuttosto che a guarire tende ad ammalarsi sempre di più.
Cappellino in testa e cravatta sgargiante autogriffata, è la dimostrazione della poliedricità del suo essere artista (oltre che docente) e di una carriera, nell’ambito figurativo concettuale, che ha conosciuto importanti tappe internazionali. L’occasione è invitante per una conversazione con lui.

Dalle donne velate agli squarci, dalle cancellazioni ai cubi, dalle opere binarie alle lattine e al riciclo di contenitori di pizze e uova: un lungo cammino “contro”, mettendo in discussione l’arte come decorazione e come mercato. Prima di esaminare i singoli “periodi”, ci può spiegare l’essenza costante del suo percorso?

«Direi l’odi et amo dei latini. L’odio che aspira all’amore con la figura post-arcaica, speculare e opposta a ciò che è solo moda. Propongo da sempre i valori e con il concettuale demistifico tutti i poteri».

Cominciamo dalle donne velate. Qualcuno ci ha visto le donne musulmane di oggi, ma in realtà lei era partito dalla sua Calabria.

«Sì, le donne velate vengono dalle vedove in nero della Calabria, d’altro hanno speculato giornali e politici».

Passiamo agli squarci. Molti si impressionarono di quello riguardante Paolo VI: non era di moda dissacrare i Papi. Dove voleva portare chi guardava le sue opere?

«Gli squarci o gli sfregi dipinti volevano condurre l’uomo a ritrovarsi al di là dei miti moderni. Quello su Paolo VI, nel 1968, ha preceduto l’altro di Cattelan su Giovanni Paolo II colpito dal meteorite».

Quindi i cubi: sei facce per un unico significato?

«I cubi o iconocubi sono un processo sintattico, un’unione di tanti mezzi: pittura, fotografia, tridimensionalità. Li ho esposti allaBiennale di Venezia del ’76 e alla Bonino Gallery di New York nel ’77».

Le opere del codice binario: un particolare per spiegare meglio il tutto.

« “Xante Battaglia, un talento attraverso uno stile”, così scrisse Pierre Restany nel 1977 a proposito della “Scoperta Binaria dei Particolari”, vedendola come codice aperto della poliidentità. La Binaria viene dopo lo sfregio dipinto avendo lo stesso contenuto ma più sottile, come ha scritto sempre Restany. Accanto a una figura intera estrapolavo un particolare significativo».

Le lattine e adesso il riciclo dei cartoni. Non è un tema in cui si cimentano in tanti?

«Mi affido a un altro critico, Carmelo Strano, che proprio in occasione di questa mostra di Pavia ha scritto: “Battaglia attraverso il suo stile del riciclo dei contenitori, che parte dal ’78 e arriva a oggi, è innovativo perché sintetizza l’etica con l’estetica”».

Lei ha usato molto la fotografia, ritenendola una forma d’arte adatta al nostro tempo. Per questo è stato spesso accostato ad Andy Warhol. Ma il suo percorso è molto lontano dalla pop art. Ci vuol spiegare perché?

«Il mezzo della foto è la nuova “pittura” attuale, il mio è un discorso post-pop e post-consumismo. Da sempre sono stato contro la pop-art demistificando i consumi, al contrario di quanto hanno fatto gli americani e i provinciali italiani».

A proposito di Warhol: lo ha conosciuto durante le sue mostre a New York e il famoso critico Gregory Battcock (che ha scritto molte volte di lei) organizzò un’intervista incrociata tra lei e Warhol. Come ricorda quell’esperienza?

«L’intervista “Battaglia-Warhol, Riconciliazione della pittura 76-77” ha anticipato la transavanguardia; poi Bonito Oliva ci ha speculato negativamente come disastro nell’arte contemporanea. Devo aggiungere una cosa, anche se un po’ mi vergogno a dirlo: Battcock scrisse che la mia arte è più valida e avanti di Wahrol, mentre Wahrol sosteneva che io avrei dovuto aggiungere “pennellate di rosso”».

Lei torna spesso in Calabria. Come sogna il futuro della sua terra d’origine?

«A Gioia Tauro ho una casa museo e una studio gallery in centro. Sull’esempio di Neruda scelgo la mia residenza in patria, cioè in Calabria. Purtroppo è una terra senza futuro… La Calabria è meravigliosa e magica, ma è vittima della generosità, dell'egocentrismo, dell’autolesionismo dei suoi abitanti».

Lei ha insegnato in varie accademie, in particolare è stato titolare della prima cattedra di Pittura a Brera; quali caratteristiche dovrebbe avere oggi l’insegnamento dell’Arte?

«Sono stato docente in sette accademie compresa Brera. Oggi sono snaturate, l’insegnamento dovrebbe essere in rapporto alla scienza con i mezzi più contemporanei: fotografia, computer, ologrammi, arte digitale, intelligenza artificiale. La macchina va utilizzata per ottenere più precisione e più pulizia».

Se può ci tolga in breve tre curiosità. La prima riguarda la sua RollsRoyce, trasformata in opera d’arte. La ebbe in cambio di sue opere? Come andò?

«La mia “RollsRoyce Cornice”, dipinta da me un po’ alla volta in vent’anni, è diventata un mito, l’ho ottenuta in cambio di una Porsche Carrera, con cui ero stato compensato per qualche quadro».

La seconda riguarda il suo libro d’artista “Un uomo senza qualità” su Bettino Craxi, pubblicato in occasione di una mostra. È vero che le creò antipatie e diversi problemi?

«Ha preceduto di dieci anni lo scandalo di ManiPulite e la storia politica italiana sino a oggi. Certo che l’arte “offensiva” crea problemi! Allora Milano era tutta socialista, può immaginare».

L’ultima riguarda l’opera in cui aveva inserito un grande fallo tra le foto di Papa Ratzinger e il suo segretario e che le ha procurato una condanna per vilipendio alla religione cattolica. La rifarebbe ancora?

«Sì, la rifarei, perché, come ha scritto una critica su Art Tribune in mia difesa, non era rivolta contro le persone ma si trattava di un preciso gesto artistico contro la pedofilia».

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