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Cancel culture e classici alla gogna

Un libro e un incontro a Messina. Il prof. Lentano e l’assurdità di attribuire agli antichi concetti e pregiudizi moderni

E non bastavano l’indice dei libri proibiti, i libri al rogo, il controllo della cultura, l’attacco sistematico allo studio dei classici. Ci volevano pure i «cancellatori culturali», i «persecutori della memoria», a imporre la censura sin dai prestigiosi atenei di Princeton e della Howard University di Washington, che dal 2021 non hanno più richiesto ai loro studenti la conoscenza del latino e del greco come condizione preliminare per laurearsi in classics. La motivazione? «Per creare un programma più inclusivo ed egualitario, dato il ruolo dei classics, “complici” nella storia del razzismo sistemico, dal colonialismo all’emarginazione femminile fino alla supremazia dei “bianchi”». Insomma, per «rimuovere tutto ciò che non si conforma ai valori e ai modelli del presente» vanno rimossi i testi degli antichi greci e romani in quanto razzisti. Una pericolosa deriva, quella della cancel culture, che Mario Lentano, ordinario di Lingua e Letteratura latina all’Università di Siena, dove è anche membro del “Centro Antropologia e mondo antico” diretto da Maurizio Bettini, nonché autore di numerosi testi scientifici e divulgativi, spiega nel suo bel libro «Classici alla gogna. I Romani, il razzismo e la cancel culture» (Salerno Editrice), presentato al Museo Regionale Interdisciplinare di Messina. Un incontro ricco di suggestioni, nato per iniziativa di Fulvia Toscano, docente e direttrice artistica di Naxoslegge e con il patrocinio e la partecipazione dell’ Associazione di cultura classica, Delegazione “P.Sgroj-G.Morabito” di Messina, e la sua presidente Anita Di Stefano (Università di Messina), dell’Archeoclub d’Italia, area Integrata dello Stretto e la sua presidente Rosanna Trovato e dell’Archeoclub d’Italia, Naxos-Taormina-Valle Alcantara e la sua presidente Tamako Chemi.

A conversare con Lentano, dopo i saluti del direttore del Museo Orazio Micali, sono stati Anna Maria Urso, ordinaria di Filologia classica all’Università di Messina, e Daniele Macris, docente di Latino e Greco al Liceo “Maurolico” e presidente della Comunità ellenica dello Stretto. «Questo libro è un j’accuse verso la cancel culture – ha detto la Urso – , lo dimostra già l’immagine di copertina, un’Atena sbianchettata che allude in maniera icastica al tema. Nel capitolo di epilogo si risponde a uno dei capi d’imputazione con cui i cancellatori culturali mandano alla sbarra il mondo antico con l’accusa di razzismo. Ma nei tre capitoli che precedono, attraverso i racconti dei miti fondativi di Roma e l’analisi delle parole dei testi classici, si svolge un’indagine volta a scoprire se effettivamente i romani erano razzisti. La conclusione è una piena assoluzione per l’accusa di razzismo, benché certamente non possano essere assolti da quella di sessismo, di violenza, di imperialismo, di aver praticato lo schiavismo su larga scala».

«Le parole – ha continuato Lentano – sono dei grandi descrittori del mondo e se una cultura non sente il bisogno di dotarsi di un termine, qualcosa significa. Nel vocabolario latino non esiste un termine sovrapponibile all’italiano “razza”: infatti il termine “genus” ha una latitudine di significati che va molto al di là di un qualsiasi concetto biologico e genetico di razza. E poi l’aggettivo “albus”, “bianco”, non è stato mai impiegato al plurale per designare individui di pelle chiara individuandoli come una partizione distinta dell’umanità contrapposta agli altri. I Romani erano consapevoli del fatto che esistono diverse pigmentazioni della pelle (anche grazie alla pratica della schiavitù) ma lo attribuivano a fattori ambientali e climatici, non a caratteristiche genetiche, come è chiaro dal termine “Aethiopes”, Etiopi, per indicare chi ha “il viso bruciato dal sole”. Etiopi, peraltro, tenuti in gran conto dagli dei, come si attesta in Omero e in Erodoto».
La parola “razza” – ha poi osservato Macris – «sembra essere presente per la prima volta tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, in un testo attribuito a Dino Compagni. Usata al maschile, “razzo”, deriva da haraz, “recinto in cui si allevano cavalli”. Cosa che fa riflettere sul degrado del termine e sul suo uso nella grande tratta degli schiavi verso l’America e l’Europa».

«È una storia di innesti e di esuli quella romana – ha aggiunto Lentano – , come ci ricordano le parole illuminate di Seneca. I Romani, ce lo dicono i miti fondativi, non erano autoctoni, l’idea di società aperta, “inclusiva”, che “dà asilo”, è presente sin da Romolo, e ancor prima da Enea, da Evandro e addirittura da Saturno, il dio esule, e da Giano, il dio viandante. È antistorico attribuire agli antichi i nostri parametri di giudizio, non si costruire una società aperta cancellando la diversità, riducendo l’offerta culturale. Certe pagine antiche ci mettono di fronte alle nostre menzogne, al nostro disagio di fronte a quello che siamo stati e siamo ancora. Gli antichi, pure se sono a volte irritantemente diversi, ci incuriosiscono, ci insegnano, ci riguardano».

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