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La cosa più umana, il romanzo. A proposito dell’ultimo libro di Paolo Di Paolo...

Mauro, studioso della Piccola era glaciale, intraprende l’indagine più ardua: sulla sua personale “glaciazione”. Siamo tutti storici e climatologi di noi stessi?

E voi, siete entrati o siete già usciti dalla vostra Piccola era glaciale? Perché lo sappiamo, ogni donna e ogni uomo non è un mondo, ma il mondo, anzi la Terra, con tutti i suoi immani sommovimenti e assetti climatici, il suo tempo lentissimo, anzi letteralmente smisurato. Se non ci fossimo noi, umani, che lo misuriamo il tempo, perché lo abbiamo inventato – anche se sarebbe più corretto dire che abbiamo inventato il modo di tagliarlo, dividerlo (lo dice l’etimologia di «tempo») – , così come abbiamo inventato la parola. E allora ognuno di noi è un pianeta a sé, in preda ai propri cambiamenti climatici e meteorologici (abbiamo imparato, in questi anni di frenetiche preoccupazioni, a tenerli ben distinti, accidenti), le sue glaciazioni o i suoi monsoni, i suoi scirocchi o tramontane, le sue meteoropatie.

Anche Mauro Barbi, storico, specializzato nello studio della cosiddetta “Piccola era glaciale”, ovvero il congelamento del Lago di Costanza tra il 1572 e il 1573 (ah, che meraviglia gli studiosi che spendono un’intera vita a studiare una sola cosa tra miliardi, senza consumarsi mai, senza consumarla mai), protagonista dell’ultimo romanzo di Paolo Di Paolo, «Romanzo senza umani» (Feltrinelli), cerca di capire qualcosa d’una specialissima, piccola ma devastante era glaciale: la sua. (L’autore, a Messina per incontrare studenti di molte scuole cittadine, presenterà il libro oggi alle 18,30 al Feltrinelli Point).

Arrivato, come di colpo, a una mezza età un poco ingrata – nel segno dell’indurimento, dell’irritabilità, della sgradevolezza che sono tutto il contrario del flusso della giovinezza (e poi, la mezza età non è forse il momento in cui spesso facciamo “revisionismo” della nostra storia, che può arrivare persino alla... “cancel culture”?) – Barbi intraprende la sua indagine di storico più ardua, quella su se stesso. E parte alla ricerca di prove, a cominciare da quella che gli sembra la più certa: la testimonianza degli altri. Quelli che ha lasciato andare, gli amici dissolti, gli amori perduti, quelli alle cui premure, alle cui mail non ha mai risposto.

L’Autore lo dice chiaramente: la domanda generativa del romanzo è: «Gli altri, cosa ricordano di noi?». Che è una domanda con un doppiofondo ambiguo e persino pericoloso. Perché il punto non è la difficoltà di riallineare le memorie condivise, ma il rischio di scoprire che non esistono affatto. E che per ogni negligenza, delusione, fraintendimento che imputi agli altri – tutti gli altri, ma specialmente quelli che ti sono e ti sono stati più cari – sei destinato a scoprire, se decidi d’investigare, di «pedinare te stesso», che sei stato tu negligente, deludente, fraintendente. E che la memoria e la storia possono essere pura “invenzione”, come ogni ricostruzione faticosa da qualunque fonte e documento («I documenti non dicono mai abbastanza, e non sempre sono prove: sostanze, avevo letto, a cui s’attacca “una rimanenza di vita”»).
Noi chi siamo nello sguardo degli altri? Ed è possibile, un mondo senza alcuno sguardo, quindi la provocazione, l’ossimoro del titolo, «un romanzo senza umani»? La risposta è già no, se questo libro esiste, ed è un romanzo di parole umane che racconta uno sguardo umano sulle cose, umane o comunque di cui l’uomo è misura.

Un libro con una struttura sorprendente: otto capitoli con incipit maestosi in cui con un linguaggio potente e alto si descrive il paesaggio inospitale di quel remoto lago ghiacciato, frutto di forze immani e plurimillenarie completamente oltre i piccoli tempi umani (il tempo d’una vendemmia, d’un raccolto, il tempo d’una passeggiata, d’una pagina, d’un amplesso, d’un bacio), e poi il passaggio a quell’altra “era” intima e personale di Mauro Barbi, la sua interiorità un poco asfittica, la sua sostanziale mancanza di coraggio e di leggerezza, le sue interazioni difficili col mondo, in dialoghi serrati e talvolta comici o in pagine quasi di saggistica, come in un flusso continuo (così come accade nel pensiero e nella memoria, la grande menzognera veritiera). Verso un finale di rara grazia (che sì, merita d’essere scoperto).

Di Paolo è chiarissimo: no, non esiste arte più umana del romanzo, del nominare le cose e farne onda di narrazione, di tempi che s’accavallano e si sciolgono, di strutture dentro cui convocare il lettore, per un giro di giostra, di crosta terrestre. Di domande: cosa ricordano gli altri di noi? Dove siete tutti? Esattamente come un altro aspirante storico, Italo, nel 2011 si chiedeva «Dove eravate tutti». Era il secondo romanzo di Paolo Di Paolo (questo è il settimo), e anche quello aveva a che fare col tempo e la possibilità che abbiamo di raccontare le storie, la Storia. Anzi, in una bella e generosa dedica proprio lui m’aveva scritto d’una «cronologia universale personale» (a proposito di ossimori, e di romanzi che ne sono la migliore prova d’esistenza in vita).

Anche lì nella narrazione s’infilavano «documenti» (quelli erano prime pagine di giornali) che documentano soprattutto il nostro sgomento di storici di noi stessi, la nostra incapacità di «predire il nostro passato», di usarne le informazioni «preziose per i disastri a venire». Noi, i disastri a venire. I disastri avvenuti.
Il romanzo «senza umani» è talmente immerso tra gli umani che passa persino, a un certo punto del viaggio di Barbi, alle terme, dove l’umanità è al suo grado zero: nuda, affollata, esposta, sottoposta a temperature estreme. Eppure solidale nel puro essere corpo, con la sua «verità indicibile», nel puro esprimere la vita, esserla senza bisogno di dirla («Siamo qui, siamo vivi. Ci parliamo senza parole»).
Ma c’è un «disgelo delle parole», c’è una storia possibile? Forse tante. E fra i dotti materiali che Di Paolo elenca nella nota finale (un’altra cosa emozionante delle sue scritture è questa minuta indicazione di folgorazioni, richiami, rimandi – «invenzioni» in senso etimologico – che stanno dentro e sotto la narrazione) figura la «Storia culturale del clima» di Wolfgang Behringer. Viene da pensare che, invece, il romanzo di Di Paolo possa essere una sorta di «storia climatica dell’emozione». C’è qualcosa di più umano?

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