Il “Doppio sguardo” di Rebecca, la donna che visse due volte. O forse – come solo alle persone davvero vive riesce – molte di più. Un romanzo, l’ultimo di Claudia Cautillo per “Le trame di Circe”, giocato sul filo ambiguo del tempo, quindi dei ricordi, che tornano e tornano – continuamente – influenzando ogni nuova traiettoria, ogni azione, ogni scelta. Fino a sbiadire, fino a che diventano – i ricordi di ciascuno di noi – tanto inerti da essere esemplari: mille storie e intrecci, che sono infine, semplicemente, la nostra storia.
Un romanzo, di fatto, sull’identità. Perché – ce lo ricorda sempre con la consueta sensibilità e limpidezza, Cautillo – ci si appropria di se stessi lentamente, esperienza dopo esperienza, raccogliendo cocci e facendone altrettanti frammenti che servono a ricomporre faticosamente, ogni giorno, la persona che ridiventiamo.
Guardando al passato, affiorano – davanti ai nostri occhi – le troppe maschere che abbiamo indossato, gli altri che siamo stati. Ed è soltanto allora che proviamo, finalmente, a esser nudi, ad archiviare – senza rinnegarla – ogni invalidante apparenza. Una parabola, per taluni spiriti, che è forse inevitabile. A tratti sicuramente dolorosa, ma da percorrere senza eccessivi sensi di colpa.
Ecco che la storia di Rebecca, approdata in magistratura dopo un’adolescenza, negli anni Settanta, vissuta fra mille inquietudini, diviene l’occasione per addentrarsi in vecchie e nuove fragilità, in vecchie e nuove certezze. Rebecca, grazie a un romanzo autobiografico, è tra le finaliste di un importante premio letterario; in auto, con la nipote Margherita, adolescente e piena di domande, viaggia spedita per partecipare all’evento in cui sarà proclamato il vincitore. Rivivono, nelle sue parole, con Roma sullo sfondo, i sussulti e le battaglie – vinte e perse – della generazione post-sessantottina, le rivendicazioni corrette che hanno dato frutti egregi, favorito l’emancipazione, assicurato diritti, ma riaffiorano anche gli eccessi e gli errori. Qualcuno eclatante e gravissimo, tanto da essere balzato alla ribalta della cronaca nazionale.
Vivere è rischiare, e lo si impara soprattutto ai primi passi. Durante l’infanzia, l’adolescenza, la gioventù. Grandi passioni, alcune cadute, e – soprattutto – segreti. Tanti, i segreti, e alcuni – nella drammatica consapevolezza della difficoltà d’essere “accettati” – resteranno per sempre inconfessabili. Tante ferite aperte e, presto, l’abitudine alle cicatrici, brutti ma spesso romantici ricordi: così, ci mostra Cautillo, funziona la crescita, del corpo e dell’anima.
Margherita, in ogni “sequenza”, è l’evidente specchio della forza ma pure delle debolezze di Rebecca: sperimentare la vita (come verbalizzano, anche, gli inserti diaristici di uno dei personaggi) è, appunto, provarci. Ha rischiato Rebecca, rischia – sempre – Cautillo. Come nel precedente, molto coraggioso, “Il fuoco nudo”, finalista al Premio Calvino del 2016, ci suggerisce che sono le persone, più che le storie, a essere scabrose: dovremmo forse avvicinarci a noi stessi, e agli altri, con più “cautela”, ma non riesce – talvolta rovinosamente – quasi mai.
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