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Se «L’abbandono» si trasmette fra le generazioni: il nuovo romanzo di Valentina Durante

Un’analisi chirurgica di perturbanti dinamiche familiari

E’ il corpo, la scena. Il corpo e le sue leggi, i suoi imperativi, le sue tirannie. Soglia e interfaccia del mondo, e anche unica possibilità di prossimità con gli altri, specie quelli che ci sono più cari. E una scrupolosa, ossessiva procedura di gestione del corpo malato, e delle sue tiranniche necessità, è quella che sembra regolare – in "L’abbandono” (La Nave di Teseo), ultimo romanzo di Valentina Durante, copywriter e docente della Bottega di narrazione di Giulio Mozzi – la routine d’un padre e d’una figlia che dopo la separazione torna a vivere nella casa paterna, per prendersi cura del genitore. In realtà, per risprofondare nelle più collose dinamiche familiari, ancora dominate, dopo anni, dall’eco di guerre e rancori, ostracismi e rimozioni.

Come in molte famiglie (tutte?): la stessa casa di sempre, con le sue palpabili assenze, prima fra tutte quella dell’amatissima madre, morta d’un cancro devastante (anche lì, nella scena del corpo era stato occultato il male: un melanoma dell’unghia che lei copriva con spessi strati di smalto, ignorandolo fino a che non era stato troppo tardi), poi della sua vicaria, la zia signorina tutta devozione (come ogni ottimo carceriere), finita in casa di cura. E, non ultima, quella dell’amato fratello, che la guerra familiare cercava di vincerla con lo scontro e il furore.

È un panorama di macerie ma ben ordinato, addirittura composto (come un corpo senza vita) dentro i binari rassicuranti dell’abitudine, della procedura sanitaria: apparentemente, tutto il romanzo si dipana in una manciata di ore, dalle 18 all’1,20, di trantran domestico. Ma il tempo che il lettore vive è quello, soggettivo e infinitamente dilatato, della protagonista e io narrante, e di tutto ciò che è stata: la bambina letteralmente (etimologicamente) imbelle, dalla «natura propensa a comprendere e giustificare», la ragazzina infinitamente ferita dalla crudeltà agita dal padre, professore di lettere soprannominato «Gullotin», che così come aveva punito la moglie, colpevole d’essersi ammalata e d’essere morta, continua a punire i figli col suo silenzio. Uomo di lettere, ma di lettere incapaci di farsi ponte e contatto, incapaci di comunicare o costruire bellezza: in una pagina molto acuta l’Autrice racconta – con la sua intelligenza dello sguardo e il suo stile misuratissimo e meticolosamente visivo – le “trasformazioni” della scrittura del padre, un rapporto con le lettere che via via sprofondano nell’illeggibilità e nel buio. E la figlia in fondo eredita (tutto si eredita) un rapporto con la parola parimenti in scacco: diventa copywriter d’incerta fortuna, e poi bizzarra “collaboratrice” delle lettere senza lettera del padre: una parte del loro non-dialogo.

La ferita attorno a cui tutti loro vivono, anche gli assenti, è quella del titolo: l’abbandono. Quello subito dal padre, da bambino. Quello che diventa Dna di tutti, disturbo relazionale ereditario e inevitabile. Dopotutto, negarsi agli altri, abbandonarli – anche senza allontanarsi – è la prima autodifesa dall’abbandono. La guerra familiare («Io e mio fratello siamo cresciuti in un costante assetto di battaglia») passa da lì. E si trasmette: l’abbandono successivo sarà la separazione di fratello e sorella. Che in quella camera della tortura, in quella gabbia senza vita della loro casa di silenzi avevano trovato calore l’uno nelle braccia dell’altra, oltre i limiti del possibile e del “lecito”. Separati, allontanati e fuggiti poi in direzioni opposte e coincidenti: lui diventando cardiochirurgo (il corpo che si doma a partire dal cuore, che lui sa risanare ma a patto di incidere col coltello...), lei consegnandosi a una speciale nevrosi che la priva del tatto. Del primo rapporto col, del corpo.

Tutta questa materia incandescente viene governata con sovrana bravura da Durante, col suo stile nitido e lucente come un bisturi, sebbene sostenuto da un mare di com-passione per l’umano.
E il bisturi ha a che fare con una parte molto raffinata della narrazione – anzi, la apre, dandoci, appunto, da subito il corpo come paesaggio e set e scena del crimine e oggetto dello sguardo: i referti che riguardano corpi di persone morte in strada “non rivendicati”. Corpi silenziati, anche quelli, privati della storia, delle relazioni, del nome. Referti che hanno a che fare con le tassonomie paterne e l’ossessività compulsiva della figlia, e il loro incontrarsi solo su terreni estranei. E che sono forse una sorta di grande metafora della letteratura: ricostruzione di storie a posteriori, a partire da dettagli minimi, dalle tracce dei corpi...

Le storie di Durante sono sempre storie di accurate prigionìe eppure di scarcerazioni possibili. Di vincoli di sofisticata, crudele perfezione, eppure di risorse nascoste, di riscatti a partire dal corpo. Per riprendersi il corpo, il tatto, il nome (non a caso apprendiamo solo alla fine quello della protagonista). La vita, quindi.

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