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Nel mondo perduto di Aiace. A Siracusa la prima delle tragedie della 59esima stagione la dirige Micheletti

La follia dell’eroe esplode nel sangue: la sua era è finita, ora tocca ai politici e ai mediatori. E il corpo-scenario diventa perturbante paesaggio d’ossa e rovina

Gronda sangue, il mondo cancellato di Aiace. Finisce in un gigantesco mattatoio – ornato da interiora gocciolanti e carni straziate, percorso da gemiti e ruggiti, in un penoso, e terrorizzante, stravolgimento dell’umano – l’epoca (l’epica) del più grande degli eroi omerici dopo Achille. Del più grande degli eroi “di prima”, lasciando il posto alla schiatta dei politicanti e degli imbonitori, i «meschini irriconoscenti Atridi» – come alla fine dei ringraziamenti il potente coro rimarcherà, riaffermando l’efficacia percussiva della voce e la forza della musica (originale, di Giovanni Sollima), due delle cose più pregevoli della prima delle tragedie della 59. stagione di rappresentazioni classiche per l’Inda al Teatro greco di Siracusa, «Aiace» di Sofocle messo in scena da Luca Micheletti con la bella traduzione di Walter Lapini.

Tragedia d’un uomo e fine d’un mondo: Aiace (interpretato con sicura forza dallo stesso regista, acclamato baritono, nei cui toni e scelte s’avverte l’etimologia operistica), reso folle da Atena (un’Atena androgina, crudele e perturbante, quella di Roberto Latini, che è anche grottesco messaggero), fa strage di armenti credendo di colpire i suoi nemici, gli Atridi che con l’inganno hanno fatto assegnare le armi di Achille a Odisseo, l’odiato Odisseo che Atena predilige e protegge, invece che a lui.

Il suo mondo, già marginale e inviso ai potenti, si dissolve nella follia e nel sangue, che dalle carcasse brutalmente sventrate schizza e infiltra ogni superficie, pelle, abito: è sul volto e la corazza del protagonista (fitta di cinghie di contenzione, nell’idea del costumista Daniele Gelsi, in collaborazione con Elisa Balbo), è sulla veste candida della sposa-schiava Tecmessa (un’intensa e appassionata Diana Manea, che dà la forza necessaria al suo nitido dolore), sembra gocciolare dall’abito porporino di Ate Thanatos (Lidia Carew) che danza flessuosa tra i brandelli dei corpi e dell’anima magna dell’eroe.

Eppure sarà proprio Odisseo (il multiforme Daniele Salvo), l’eroe celebre per l’astuzia, il tessitore d’inganni, a mostrarsi empatico e ricco di pietas verso Aiace, e la sua sottigliezza stavolta sarà a beneficio del suo personale nemico: convincerà gli Atridi (l’arrogante e stolido Menelao di Michele Nani e il compiaciuto Agamennone di Edoardo Siravo) a concedere la sepoltura dell’eroe suicida, paradossalmente sancendone così la sconfitta, e la vittoria definitiva d’un mondo di parola e di mediazione che scalza e soppianta il mondo granitico della forza, e dell’onore, che era stato di Aiace ed è morto con lui, nel bagno di sangue insensato che prosegue nel suicidio, e infine è distante e remoto come le gigantesche ossa calcinate d’una qualche favolosa creatura del passato (il teschio e le vertebre: resti di quello che fu l’eroe dalla schiena dritta…): le forti scenografie di Nicolas Bovey esplicitano, con ciclopica meraviglia, questo passaggio (quasi in un immaginifico percorso a ritroso da una tela di Francis Bacon, o da un’estrema, sanguinosa performance di Hermann Nitsch a una gigantesca “Vanitas” secentesca), che segna, di fatto, le due distinte parti, tagliate da una cesura insistita di buio spaesante, d’uno spettacolo tutto giocato sulla meraviglia visiva più che sull’intensità emotiva. E che, malgrado l’insistita proposta degli effetti sanguinosi delle contese e delle umane dismisure, rinuncia a qualsiasi allusione o rimando alla sanguinosa contemporaneità che stiamo vivendo.

Assai unitario e coerente, pur esplorando ogni sfumatura d’espressione, è il corpo sonoro della tragedia: la ricca partitura di Giovanni Sollima allinea parola e musica, s’estende (e ci prende) nelle bellissime parti affidate al coro nei tre Stasimi, addensa e modula il dramma, con la potenza evocativa e perentoria della musica eseguita in teatro, attraverso il trio di violoncelli (Francesco Angelico, Christian Barraco, Cecilia Costanzo), percussioni (Giovanni Caruso) e arpa (Giuseppina Vergine), e gli attori-musici Marcello Zinzani (clarinetto) e Paolo Leonardi (trombone).

Eccellente, si diceva, il coro, che anima profondamente la convulsa scena, diretto dai maestri Davide Cavalli e Marcello Mancini e con le coreografie di Fabrizio Angelini: i corifei, il messinese Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Grilli, Mino Manni, Francesco Martucci, e poi Giovanni Accardi, Gaetano Aiello, Ottavio Cannizzaro, Pasquale Conticelli, Giovanni Dragano, Raffaele Ficiur, Gianni Giuga, Marcello Mancini. Come sempre impeccabili i ragazzi dell’Accademia d’arte del dramma antico (fucina di talenti e eccellenza formativa nazionale), qui nelle vesti dei marinai di Aiace e di Erinni, soldati, dei.
Tommaso Cardarelli è un efficace Teucro, fratellastro di Aiace. Tenera l’apparizione, nelle vesti di Eurìsace, figlioletto di Aiace e Tecmessa, della piccolissima figlia del regista, Arianna, che strappa sorrisi e applausi (ma forse distrae e diluisce la forza drammatica della scena).

Non ci stancheremo mai di rammentare, come fa nel ricco libretto che tradizionalmente accompagna gli spettacoli il consigliere delegato e sovrintendente ad interim Marina Valensise, l’importanza e l’unicità del progetto culturale dell’Inda – non «riadattare» ma «ritrovare i classici» – che comincia, per ogni spettacolo, dalla traduzione affidata a grandi studiosi e si estende fino alla cura delle foto di scena, opera d’un gruppo di straordinari fotografi. Fortunatamente – viene da pensare dopo aver visto il possente scenario-corpo di Aiace – non camminiamo tra le spoglie colossali d’un mondo consumato, come fossero resti ciclopici che c’inducono solo perturbante meraviglia, se riusciamo a capirne e restituirne il senso e celebrarne il valore: noi uomini, «fantasmi e vane ombre», in balìa del volere capriccioso degli dei, non abbiamo che il nostro presente, la nostra parola, il nostro gesto che può farsi, si fa teatro, condivisione, forza. A Siracusa – e gli applausi del pubblico lo hanno confermato anche stavolta – si torna ogni anno a celebrare esattamente questo.
In scena, in alternanza con «Fedra», fino al 7 giugno.

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