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Il conflitto di ognuno di noi tra essere e dover essere nel romanzo di Giovanni Grasso

La verità dietro l’apparenza, la fiducia nelle relazioni umane, l’indefinibilità dell’amore nell’ambiguo gioco della seduzione diventano nel romanzo «L’amore non lo vede nessuno» di Giovanni Grasso (Rizzoli) spunti d’indagine esistenziale, negli aspetti di sofferenza e tormento, capaci di sconvolgere le fondamenta della stessa identità.

Giornalista – consigliere per la comunicazione del Presidente della Repubblica – , scrittore, autore teatrale e televisivo, Grasso ci accompagna nel backstage dell’animo umano, per una rappresentazione della vita che mette in scena la storia di Federica, giovane impiegata in una casa d’aste a Milano, avvezza a premere sull’acceleratore della vita, come su quello della sua auto. Troverà la morte in un incidente stradale dalle dinamiche poco chiare, da cui si dipanerà, per iniziativa della sorella Silvia, una serrata indagine sulla sua vita, col focus sull’uomo o gli uomini che possano averne subito il fascino o un possibile ricatto. La trama presenta immediatamente diversi piani di lettura e continui colpi di scena che scompaginano certezze e approdi, prospettando sempre nuovi orizzonti. Un giallo che strizza l’occhio al thriller, sollecitando intense riflessioni sulla vita, sul valore relativo delle nostre convinzioni, sulla morale come pratica religiosa e di vita, fino a toccare le corde intime di un’aspirazione all’assoluto, motore dell’agire umano, sospeso fra il terreno e il soprannaturale, nel limbo del rapporto col sé e l’alterità.

Fulcro della vicenda, gli incontri settimanali, in un bar di periferia, tra Silvia, donna pacata e devota al marito, e Paolo, misterioso affascinante signore di mezza età, ex amante di Federica. L’autore scandaglia settimanalmente i colloqui tra i due, nello spazio limitato di un’ora, come fossero sedute di psicoterapia, offrendo a mano a mano elementi di conoscenza utili a comporre il puzzle della complessa personalità della defunta, ma anche dei lati irrisolti di Silvia e Paolo. Tra loro un patto di fiducia: lei non farà nulla per conoscere l’identità dell’uomo, ottenendo in cambio una sincera confessione sulla relazione d’amore con la sorella. Un triangolo di rapporti, quindi, con Federica al vertice, e i due personaggi intenti ciascuno a definire se stesso attraverso lei. Per entrambi un passato di rigore, con precisi confini su regole e responsabilità, cui fa da contraltare la sete di esperienze della scomparsa, il suo disprezzo per la mediocrità, il gusto per il piacere e il lusso, l’egoismo quasi infantile.

Il racconto dell’uomo, sofferto e tormentato, mette in campo un’alternanza di eros e thanatos violenta e distruttiva, da cui prende forma il primo fondamentale dubbio esistenziale sull’umana capacità di gestire le passioni invasive, quelle che come un demone assoggettano la volontà, tenendo l’individuo sull’orlo del baratro, assetato, come un drogato, del suo veleno.

Un’altalena di incontri felici, assenze, doni e punizioni sembrano delineare precise posizioni di carnefice e vittima. Ma è proprio così? La fiducia è un sentimento che si può concedere senza riserve o va calibrato? La narrazione, schietta e senza veli, assume a tratti i toni del dramma, in cui colpa e bisogno di espiazione vanno di pari passo e i piani del racconto si dilatano, fino ad accogliere il metafisico, il rapporto dell’uomo con la religione, il senso morale dell’impegno, l’amore come responsabilità verso l’altro, oltre il puro erotismo.

L’autore non rinuncia a sottili riferimenti all’oggi, ad un mondo che ha smarrito il senso della misura e della responsabilità sociale. E nell’epilogo, quando la narrazione sembra imboccare la via della catarsi, viene riproposta una lettura della vita come conflitto tra essere e dover essere: affannosa ricerca di assoluto, in cui l’uomo è copia imperfetta di qualcosa che lo sovrasta, inafferrabile e magnetica assieme. Come il grande amore.

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