La prova migliore è stata la spettatrice seduta dietro di me: ha riso di continuo. Ha battuto le mani quando (da subito) la mattatrice Paola Minaccioni ha esortato la platea a partecipare, ha esultato quando l’inganno tessuto in scena è andato a buon fine. Ma soprattutto ha riso tanto e di gusto. Che dire: prova superata, caro Plauto. Era la prima volta del «Miles Gloriosus», gloriosa commedia che ha attraversato tutti i secoli, nel cuore del cuore del teatro greco recuperato e celebrato ogni anno come un rito sacro (come è) a Siracusa, grazie al benemerito Istituto nazionale del Dramma antico. Ed era arduo, come sempre è la commedia, laddove si misura con più evidenza la distanza di mondi e linguaggi e azzeccare la formula è complicato assai e non sempre l’esito è felice. E invece Leo Muscato, già applaudito lo scorso anno per l’ottimo «Prometeo Incatenato», ha provato a inventarsi con grazia beffarda, sull’agile traduzione di Caterina Mordeglia, un Plauto che regga la prova della contemporaneità, la prova dello spazio grande del Teatro greco sul Temenite, la prova di reinventare uno spirito comico che sia assieme perenne e moderno. E io penso – e la mia vicina di posto pure, così come le migliaia di spettatori che riempiono la cavea a ogni replica – che ci sia proprio riuscito. Di scena c’è la guerra, o meglio la sua citazione fanciullesca e/o grottesca, tra i boy scout e Sturmtruppen: le divise mimetiche sono sgargianti (mimare la mimetica! Disuniformare l’uniforme!), la disciplina militare è caricaturale e il prode condottiero è un bugiardo patologico le cui imprese sono solo chiacchiere e distintivo (fasullo). E il registro grottesco, ben declinato attraverso tutta l’abile costruzione della scena (di Federica Parolini), le scelte cromatiche e musicali (i bei costumi di Silvia Aymonino, le musiche-drammaturgia di Ernani Maletta), gli accenti del coro che il regista s’è “inventato” (ben diretto da Francesca Della Monica), dalle animatissime coreografie (di Nicole Kehrberger), è spinto all’estremo dalla scelta di Muscato, ardimentosa ma riuscita, d’un cast tutto femminile. Nella finzione della finzione – una finta guerra su un palcoscenico dove ogni cosa è rovesciata nel suo opposto – si dribbla e s’irride persino la (serissima) guerra dei sessi, s’introduce un ulteriore elemento d’inversione dei mondi. Nel finto campo dove la guerra è citata e irrisa contemporaneamente (e potremmo dedurne che la guerra è sempre un feroce, stupidissimo gioco di fanciulli) si muove l’ “eroe” che dà nome alla commedia, quel Pirgopolinice sbruffone nella cui mimica si riconoscono ben note figure di marziale ridicolaggine (a chi la ridicolaggine? A noi!) che Paola Minaccioni, attrice comica molto amata dal pubblico, agisce con grande maestria e divertimento. Lo sbruffone – “maschera” assai nota e immortale, anche se qui siamo lontani, per virtù d’eleganza e sapienza scenica, da ogni maschera – sta in scena solo per essere deriso (da subito, con gusto, pure dal pubblico) e infine gabbato dalle “architetture” dello schiavo Palestrione (bravissima Giulia Fiume, di soave scaltrezza) che riesce a liberare, assieme, se stesso e la bella Filocomasio (una splendente Gloria Carovana), che era stata rapita dallo sbruffone, riportandola al suo innamorato Pleusicle (Arianna Primavera). I meccanismi sono classici: lo scambio di persona, lo stratagemma, l’amore contrastato, l’equivoco. I personaggi pure: il parassita, l’innamorato, la cortigiana, il servo furbo. Roba millenaria, ma, fortunatamente, maneggiata e “riscritta” con grande abilità e gioiosa inventiva. Col femminile che mette in scena… anche il femminile, in un gioco di specchi in cui ogni cosa è citazione e distanza da colmare con la risata: molto efficaci e fascinose (ma anche qui è citazione comica d’un certo tipo di femminile) le “meretrici” Acroteleuzio e Milfidippa (ah, quel “Milf” del nome, che gancio linguistico…) di Deniz Ozdogan e Anna Charlotte Barbera. Ma anche il maschile messo in scena partecipa di questa distanza-presenza assai centrata, con la vivacità ottimamente diretta di Pilar Perez Aspa (un Periplectomeno che sdrammatizza, anzi “drammatizza”, persino una sedia a rotelle da reduce), Alice Spisa (Artotrogo), Francesca Mària (Sceledro), Ilaria Ballantini (Lucrione). Tutte eccellenti, nella buona tradizione dell’Inda, le componenti del coro e le allieve dell’Accademia d’arte del dramma antico. Menzione speciale per la scimmia (l’irresistibile Valentina Spaletta Tavella), vero animale totem dello spettacolo: una di quelle figure che regista e drammaturgo (ormai dobbiamo salutare, con vera gioia, questo protagonista stabile nelle produzioni Inda, incarnato dal multiforme Francesco Morosi) tirano fuori da un angolino invisibile del testo e ne fanno un indomabile spiritello guida. La scimmia mima, salta, agisce tutto quello che non passa dalla parola, divenendo una sorta di simbolo vivo, d’immagine mobile della creatività antica e moderna che collaborano assieme per produrre la cosa più difficile, più catartica, più necessaria di tutte: la risata. Si replica fino al 29.