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È il momento della responsabilità: riflettori su Dem e pentastellati

Una cosa è chiara: i simboli religiosi, le liturgie, i protocolli della fede non sono amuleti, formule salvi(ni)fiche, scorciatoie ufficiali per l'infinito, ma elementi che supportano una composta adesione a un credo, a questa o quella idea d'assoluto. Usare un rosario come passe-partout per godere dei favori d'un demiurgo è superstizione, l'esatto opposto dell'essere uomini pii. È, semmai, paganesimo.

I nuovi barbari giocano alla vita, giocano alla politica, come usano i rosari. Perfettamente calato nel lato oscuro del nostro tempo, Salvini è drogato di like, interessato - soltanto - a riscuotere consensi, poco importa se effimeri. Ha, letteralmente, smarrito il senso della gravità, quella che obbliga tutti noi a (re)stare... al suolo, a viverci su, a non potercene mai più di tanto allontanare (si vola solamente nei sogni, e cavalcarli - per illudere gli ingenui, il più delle volte - è demagogia, se non ti chiami Martin Luther King).

La macchina salviniana del consenso plasma le “verità” con la stessa spregiudicatezza con cui il grande capo bacia i rosari. Finora, durante l'esperienza di governo, spararle grosse aveva pagato; quando l'ex padano (sì, lui che diceva peste e corna dei terroni) è rientrato nel mondo reale - il Parlamento, le sue regole, la Carta costituzionale - s'è accorto che il mojito agli uomini giova meno dell'acqua, e l'odio per i migranti meno dell'abbassamento - reale, non a chiacchiere - del cuneo fiscale.

Sì, i migranti: quelli di cui Salvini finge d'essere ossessionato - in realtà non gliene frega quasi nulla - per tenere calde le sue claque in platea. Là dove tutti distinguono sprezzanti un nero da un bianco, mai - con onestà - un euro da un rublo.

Adesso è il momento della responsabilità. Lasciamoci alle spalle l'immagine, triste, del premier professor Conte che in Senato bacchetta «Matteo» (così lo chiama), somarello che non sa di Diritto costituzionale ma nemmeno di lealtà nei confronti dei compagni di classe a cinque stelle. Sì, alle spalle.

Oggi le consultazioni decisive del Capo dello Stato. Occhi puntati su Dem e pentastellati, cui Mattarella chiederà d'esser chiari e rapidi. Ieri il gruppo per le Autonomie, salito al Colle, si è detto disponibile ad appoggiare un nuovo governo M5S-Pd; i gruppi misti e Leu, più che favorevoli a una svolta, auspicano un esecutivo di legislatura, una seria alternativa politica e programmatica al non-progetto e allo sfascio gialloverde.

Stamane al Quirinale la delegazione del Pd. Ieri Zingaretti ha indicato cinque punti, sensati, su cui trattare per l'eventuale nascita di un governo con i 5Stelle. Che dire? Ci sono i rapporti con l'Ue, la centralità del Parlamento, lo sviluppo che sempre dovrà andare a braccetto con la sostenibilità ambientale, politiche economiche e sociali più eque, la gestione - con l'Europa chiamata in causa - dei flussi migratori. Sulla carta, ieri, il Pd è sembrato unito. Ma è nota la vocazione all'autolesionismo dei Dem, l'incapacità di comunicare il meglio e la sublime immarcescibile abitudine a declinare - in pubblico - il peggio. Inoltre Zingaretti sembra più preoccupato di Renzi che dell'ultradestra, cioè più preoccupato della minoranza (ma non in Parlamento) del suo partito che dei sovranisti, degli Orbán e delle Le Pen de' noantri. E alla fine, fatta una doverosa ma fredda “esplorazione”, Zingaretti potrebbe non ravvisare le condizioni per un governo giallorosso. Specie se gli daranno... un aiuto i 5S che, riscoprendo inclinazioni cromosomiche, potrebbero impuntarsi su questo e su quello non favorendo una sintesi.

Ancora buone tutte le ipotesi, in questo incubo di mezz'estate regalatoci da Salvini, tra possibile aumento dell'Iva e dignità nazionale in caduta libera. Fra le ipotesi, ovviamente, un governo per il disbrigo pratiche urgenti salva-Paese barcamenandosi fra le macerie gialloverdi, e voto in primavera. È quella stagione in cui la natura, dopo un bel po', palpita daccapo. Nella narrazione che se ne fa, convintamente... disneyana, la primavera ha tratti docili e amichevoli; per taluni - Stravinskij docet - è invece, ambiguamente, aggressiva. È la più decantata, forse perché la più ruffiana delle stagioni. Per questo piace a molti, come piacciono certi piazzisti di sgargianti fanfaronate.

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