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Una stagione da sfruttare contro la piaga populista

Più d’un commentatore politico, in queste ore, se ne dice certo: in Italia i “populismi ” sono giunti ai titoli di coda, la vittoria del «Sì» al referendum è il loro canto del cigno. Individuiamo gli argomenti a favore di questa tesi. È suffragata dalla catastrofe alle urne per i pentastellati e anche dalla frenata leghista (in Veneto la vittoria si chiama Zaia, in Liguria porta il nome di Giovanni Toti, ex forzista, ora leader di “Cambiamo!” ed espressione di una destra moderata). Non a caso i partiti che più hanno voluto il “taglio dei parlamentari”– passato grazie al referendum (69,6% dei consensi, affluenza del 53,8%) –registrano ora una “crisi di leadership”. Luigi Di Maio si è rimesso sotto i riflettori oscurando il “capo politico” Vito Crimi. E, mentre si parla del Congresso che verrà e d’un possibile direttorio, Alessandro Di Battista scalpita innanzi a una dilapidazione di voti che non concede attenuanti.

Il fatto è che i Cinquestelle non sono riusciti a mettere insieme una classe dirigente credibile, e ciò è sotto gli occhi anche degli italiani più distratti. Sono rimasti intrappolati tra i loro statuti e codicilli: chi aveva creduto nella loro capacità “sovversiva” mossa da etico furore –un compendio esemplare del populismo d’ogni latitudine – non li capisce più, è deluso. Neanche Matteo Salvini, da quando non può esibire i muscoli perché da solo si è escluso dal ring, naviga in acque tranquille. Dal “Papeete ” in poi è successo qualcosa, e il pressappochismo mostrato a proposito del coronavirus – sulla scia dei leader populisti Trump, Bolsonaro, Johnson, campioni di irresponsabilità – non lo ha aiutato a recuperare punti.

I rapporti con parte del suo elettorato si sono lentamente e implacabilmente deteriorati. Chi vedeva in lui l’ennesimo salvatore della patria– vizio italiano, quello delle infatuazioni per i politici che hanno comunque “risposta pronta”, ed è il comunque che dovrebbe invece mettere in allerta – ha cominciato a dubitare. Troppi slogan, troppi “travestimenti”, troppa immedesimazione nell’uomo qualunque (espressione che ovviamente non scegliamo a caso) per non destare sospetto. L'incremento di credito dato a Fratelli d’Italia non si spiega altrimenti: un travaso a destra verso lidi altrettanto populisti però meno “rumorosi ”. Il progetto nazionale di Salvini può di fatto – è nostra opinione – ritenersi quantomeno ridimensionato. Poco a poco ha perso colore, è sbiadito.

Il leader del Carroccio, come l’altro Matteo, ha personalizzato troppo. E osato troppo. Via il “Nord ”dal nome del partito, e da lì in poi sarebbe stato necessario più rigore; poca disponibilità alla trasparenza nella serissima vicenda dei 49 milioni; una perenne postura da comiziante: lontano dal Viminale quand’era ministro, e anche ora quando bisognerebbe edificare programmi e lavorare quindi sulle idee invece che procedere a tentoni improvvisando – a seconda degli umori della pancia della gente – linee d’ondivaga condotta per riguadagnare appeal. L’apprezzamento di cui godono Luca Zaia in Veneto e Vincenzo De Luca in Campania dà un’indicazione chiara: appaiono efficienti, operativi. Soprattutto presenti. Entrambi, non a caso, esponenti sui generis del partito cui appartengono.

Eccentrici, lontani dal “centro”, uno dei due –persino – con un più di personale stravaganza. Sono percepiti in modo positivo semplice - mente perché fanno: la verità è che le cose “ordinarie” del buon governo finiscono col sembrare “straordinarie” in un Paese dove, ahinoi, è stata disillusa la promessa di felicità collettiva che – qualche decennio fa – era venuta da un capitalismo ancora non sbugiardato. La società di oggi, tradita dal neoliberismo – cosa di cui sta acquisendo graduale consapevolezza–, rimane però una creatura smarrita. Il senso della politica s’è decomposto, e s’avverte un generale fastidio verso soluzioni che abbiano bisogno di tempo per maturare – perché affaticarsi per trovare una sintesi che metta d’accordo, ad esempio, crescita e equità? –. Nessuno, al di là delle apparenze, reclama davvero orizzonti vasti. I più s’accontentano dell’immediato. E, una volta che i rapporti tra classi dirigenti e cittadini si sono fatti più fragili, e – a peggiorare le cose – ci si sente incalzati dal “tempo”, sono inevitabili le dinamiche di radicalizzazione, qualunque sia la piega che prendono, e di rivalsa prima sociale che politica.

L’humus per “vecchi” e “nuovi ” populismi, come si evince, è rimasto tutto. Certo, una parte di Paese vorrebbe una nuova destra, più moderata e finalmente europeista. L’altra parte di Paese chiede invece alla sinistra, che pure deve rinnovarsi, d’interpretare – con maturità – le istanze che arrivano dai territori. Superato il messianismo mercatista, ed è una buona notizia, si devono portare avanti proposte lungimiranti e non precarie per il lavoro, vanno riacquisite sicurezze sul welfare, riadattati ai tempi i progetti (non le chimere) per il Sud rimasti in naftalina. Il populismo non è morto, ogni tot di tempo tutt’al più si prende una pausa. Nei mondi che sanno, dopo ere buie, daccapo riempire il presente d’una credibile idea di futuro, non riattecchisce. Nei mondi dove non smette di crescere lo scarto tra la gente comune e l’élite ecco che il populismo rimette la testa fuori, come un’ernia.

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